Il made in Italy è diventato uno slogan che non dice più niente. Diventato più funzionale a quella retorica che ha fatto il male dell'Italia che alla tutela dell'Italia. Dall'arte, alla cucina, dall'agricoltura, alla moda e si potrebbe continuare. Nell'Italia di oggi si rimpiange ciò che non è più italiano. Hanno distrutto le campagne, hanno distrutto le coltivazioni storiche, è stato mescolato tutto, per arrivare all'assurdità di cortocircuiti propri di una società totalmente sballata. La globalizzazione nell'economia ha comportato il saccheggio dell'Italia, l'appropriazione indebita di ciò che ha reso unico il nostro Paese nel mondo per perderci nella nullità dell'essere più niente e nessuno.
Siamo bravi a decantare od osannare bellezze e miti e leggende che attraversano la storia di ciò che è arrivato, nel bene o nel male a determinare l'Italia. Un Paese fittiziamente unito, che deve la sua vera forza ai regionalismi, localismi, che non sono campanilismi sterili o banali, ma espressione dell'essere comunità. Ogni luogo ha una sua lingua, un suo dialetto, una sua tradizione, una sua cultura, una sua specificità, una sua identità.
Si è perso tutto. Le mitiche arance rosse siciliane sono introvabili, troverai quelle spagnole, le olive calabresi o pugliesi son diventate più rare di un diamante, ma è facile trovare quelle turche o greche, per non parlare del tessile, prodotto in Cina, Bangladesh, Pakistan, India o su Marte. Ed il tutto non è segnato dalla qualità, e per qualità si intende anche ciò che porta alla produzione di una merce. Si tratta di una qualità pessima, a partire dalle condizioni di lavoro a cui sono soggetti gli sfruttati per far arrivare sulle nostre tavole o sui nostri corpi ciò che un tempo raccoglievano con le proprie braccia, o producevano anche con gran senso di orgoglio fatica e passione passando da lotte di rivendicazioni di diritti importanti, generazioni di questo Paese oramai smarrite nell'oblio. Ci siamo dovuti inventare la formuletta del Km 0 per cercare di far sopravvivere un minimo di specificità. Abbiamo perso ogni senso di orgoglio.
La globalizzazione è stata un disastro totale e disumano. Un conto è il diritto alla mobilità, il diritto a poter girare e viaggiare nel mondo, condividere culture, conoscenze e sentirsi cittadini del mondo, un conto è favorire un sistema che ha comportato distruzione del territorio, povertà, miseria e schiavismo in tutti i lati del globo spacciando la globalizzazione come un qualcosa di figone. Il Friuli Venezia Giulia è una piccola regione, dalle mille identità, a partire dalle sue radici latine, slave, dalle quattro lingue che qui si parlano, italiano, sloveno, friulano, tedesco, senza dimenticare i vari dialetti. Diverse tradizioni, diverse culture, diverse identità, sopravvissute alle minacce nazionalistiche reazionarie ed estreme del '900 ma che rischiano di soccombere alla globalizzazione selvaggia che l'Italia non è riuscita a domare, che questa Europa ha sostenuto, tradendo lo spirito stesso del made in Italy che dovremmo iniziare chiamare con la nostra lingua, che se si continua così tra neanche cent'anni diventerà una seconda lingua perchè nel mondo qualcuno ha deciso che la lingua comune deve essere quella inglese, e italiano, sloveno e tedesco e friulano in FVG rischieranno seriamente di essere minati dal nuovo male di questo secolo la globalizzazione.
Dunque chiamiamolo prodotto in Italia, o meglio prodotto in Friuli Venezia Giulia, che deve essere rigorosamente pubblico, tutelare arte, bellezza, cultura, cucina ecc ovvero tanti piccoli elementi che messi insieme serviranno a salvaguardare la "nostra" storia, il nostro saperci distinguere nell'universalità di quel nulla che vuole spazzare via ogni differenza sotto il segno dell'omologazione con il marchio della globalizzazione.
L'Italia ha fallito ed è fottuta nel suo insieme ma il Friuli Venezia Giulia può ancora fare la differenza, la sua.
Marco Barone
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