C'era una volta Gorz. Gorizia, la città più tedesca del "nord est italiano"

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    Gorizia è oggi, a causa degli eventi del '900, conosciuta forse come la città più italiana, delle italiane, anche se la sua peculiarità discende dal passato asburgico, quello che affascina, quello che interessa i turisti, insieme alla questione dell'ultimo "muro" caduto che divideva Gorizia da Nova Gorica. A partire dal 1500 Gorizia conobbe la sua svolta, una città dove convivevano, senza ghettizzarsi, idiomi diversi, dove la cultura germanofona era rilevante, con l'ultimo censimento dell'Impero che arrivava a contare poco più di 3000 cittadini di lingua tedesca. Tedesco, sloveno, friulano, italiano. Il nome Gorizia, è un nome slavo, una città dallo spirito tedesco, di cui oggi si è praticamente perso pressoché ogni traccia. Salvo iniziative di qualche realtà associativa privata, che mantengono con impegno e passione viva la lingua tedesca a Gorizia e contributi da parte di alcuni storici e studiosi, in città si è assistito ad un vero e proprio annichilime

Il prossimo passo del Governo sarà quello di spazzare via il sindacalismo di base ed autonomo?

L'articolo 39 della Costituzione recita: L'organizzazione sindacale è libera.  Libera di esistere, ma anche di non contare nulla. Questo è quello che vorrebbe il Governo, ovvero troncare ogni processo di dissenso, ogni “ostacolo” al decisionismo, affinché sia veramente la volta buona per l'affermazione dell'autoritarismo puro dopo la caduta del ventennio. Bisogna essere sbrigativi, bisogna essere veloci, dobbiamo semplificare, razionalizzare, che in linea di massima non sarebbe una dramma, ma nella realtà italiana invece lo è. Lo è perché è in corso l'accentramento pieno del potere, è in corso la demolizione del piccolo brutto e scomodo, penso alla “incentivata” soppressione dei piccoli Comuni del Friuli Venezia Giulia, cioè la maggioranza nella regione, anzi la quasi totalità della regione, destinati a diventare periferia di se stessi, annientando ogni processo di democrazia diretta, concreta e partecipata. Solo il grande deve essere bello, rappresentativo e riconosciuto. Perché il grande è più facile da governare, condizionare e controllare. Il piccolo può essere una scheggia che blocca gli ingranaggi della macchina. Il piccolo è ostacolo da sopprimere. Veloci, rapidi, come un treno ad altissima velocità, ma anche i treni ad altissima velocità rischiano di deragliare specialmente in un Paese che ha conosciuto il fascismo, combattuto il fascismo, l'autoritarismo e voluto la democrazia, quella reale non quella a parole. Si vuole emulare il modello sindacale tedesco, non unico, ma unitario, ma in verità unico, un sindacato che non sciopera praticamente mai, un sindacato che è più comodo e funzionale alle logiche del potere che a quelle dei lavoratori e delle lavoratrici. Non è una questione di piccoli e diffusi interessi da tutelare, è una questione di dissenso, critica e libertà associativa, di democrazia. Già le cose oggi funzionano in cattivo modo, pensiamo alla regolamentazione ferrea della legge in materia di scioperi, destinata ad essere rivista in via ancora più restrittiva, pensiamo ai non diritti non riconosciuti ad una miriade di lavoratori e lavoratrici iscritti al sindacalismo di base e, o autonomo, dalle assemblee, linfa vitale per un sindacato, alle bacheche e così via discorrendo, ma questo non basta. Non basta. Si vuole staccare la spina al sindacalismo di base ed autonomo, e probabilmente lo si farà colpendo l'unico elemento di sussistenza, la ritenuta sindacale, inibendo a questi la proclamazione del diritto di sciopero, ad esempio. E' allarme rosso, in tutti i sensi. Quello che non ha osato fare la destra, lo attua il nascente Partito della Nazione, che ha il volto del PD, ma un corpo eterogeneo nei nomi, ma omogeneo nella sostanza capitalista. Un tempo per lavorare e vivere e per non morir di fame dovevi essere iscritto al partito fascista, ora per avere i diritti si deve essere iscritti al Pd od essere complici del partito della nazione?  Chinarsi al decisionismo? Non ce ne faremo una ragione. 


Marco Barone

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