C'era una volta Gorz. Gorizia, la città più tedesca del "nord est italiano"

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    Gorizia è oggi, a causa degli eventi del '900, conosciuta forse come la città più italiana, delle italiane, anche se la sua peculiarità discende dal passato asburgico, quello che affascina, quello che interessa i turisti, insieme alla questione dell'ultimo "muro" caduto che divideva Gorizia da Nova Gorica. A partire dal 1500 Gorizia conobbe la sua svolta, una città dove convivevano, senza ghettizzarsi, idiomi diversi, dove la cultura germanofona era rilevante, con l'ultimo censimento dell'Impero che arrivava a contare poco più di 3000 cittadini di lingua tedesca. Tedesco, sloveno, friulano, italiano. Il nome Gorizia, è un nome slavo, una città dallo spirito tedesco, di cui oggi si è praticamente perso pressoché ogni traccia. Salvo iniziative di qualche realtà associativa privata, che mantengono con impegno e passione viva la lingua tedesca a Gorizia e contributi da parte di alcuni storici e studiosi, in città si è assistito ad un vero e proprio annichilime

Scuola dal cuneo fiscale alla riduzione prevista del personale docente


''Saranno permanenti gli 80 euro in busta paga''. Queste parole, del nuovo premier,Matteo Renzi, hanno creato una situazione di attesa per milioni di lavoratori. Da quello che sembra di capire la restituzione di questi 80 euro netti riguarderà i lavoratori  che ad oggi guadagnano un massimo di 25 mila euro all'anno. Si parla del così detto cuneo fiscale. Secondo l’OCSE, Il cuneo fiscale è “la misura della differenza  tra il costo del lavoro che sopporta il datore di lavoro e la corrispondente retribuzione netta che riceve il dipendente”. L’Italia, specialmente sulle famiglie, ha il quarto cuneo fiscale più elevato al mondo, superata solo da quello di Francia, Belgio e Grecia. Un manovra simile venne già tentata nel 2007 dal governo guidato da Romano Prodi il quale approvò la riduzione di 5 punti percentuali del cuneo fiscale, suddivisi per il 60% alle aziende e per il 40% ai lavoratori, su un intervallo temporale di 3 anni.
Con decisione C(2007) 4133 del 12 settembre 2007, trasmessa con nota n. D/205446 del 13 settembre 2007 alla Rappresentanza permanente dell’Italia presso l’Unione europea, la Commissione europea scioglieva anche ogni riserva sulla possibile natura di “aiuto” delle disposizioni in esame, in considerazione anche dei correttivi medio tempore operati dal legislatore nazionale, ritenendo di “non sollevare obiezioni relativamente alla misura, perché essa non costituisce aiuto di Stato ai sensi del Trattato CE.  Ma quella manovra in realtà fu irrisoria per i lavoratori a causa delle successive manovre economiche. Si dibatte molto da dove possano entrare le risorse. Il documento del bilancio dello Stato, che espone i dati delle previsioni del bilancio per il triennio 2014-2016, rileva che per l’anno 2014, in termini di competenza le previsioni per le entrate finali sono pari a 518.312 milioni, mentre quelle per le spese finali ammontano a 556.620 milioni; il saldo netto da finanziare si attesta a 38.308 milioni. In termini di cassa, sempre per l’anno 2014, il saldo netto da finanziare è di 106.471 comprensivo del fondo di riserva per le autorizzazioni di cassa di 10.000 milioni. Tali risultati sono al netto delle regolazioni contabili, quantificati per l'anno 2014, sia in termini di competenza che di cassa, in milioni 27.099 per le entrate e milioni 32.809 per le spese. Se a ciò si aggiunge la situazione gravosa del debito pubblico, è chiaro che le perplessità sono enormi. La scuola è stata già oggetto di manovre pesanti, alcune fermate grazie alla mobilitazione, altre invece  programmate  ed attuate. Pensiamo al blocco degli scatti, del rinnovo contrattuale, al divieto di monetizzazione delle ferie, alle irrisorie percentuali di assunzione previste, alla precarietà diffusa,  al  dimensionamento della rete per la generalizzazione degli istituti comprensivi, norma che, anche se recentemente dichiarata incostituzionale, risulta già applicata in modo consistente in molte regioni.  Recentemente uno studio della Fondazione Agnelli, ha evidenziato che dal 2007 al 2012 il personale della scuola statale (insegnanti e Ata) è diminuito del 10,9%, una percentuale quasi doppia rispetto alla media del pubblico impiego, che nello stesso periodo ha visto nel suo insieme una contrazione del 5,6%.  Uno studio di previsione del Ministero dell'economia, anno 2010/2027, evidenzia che “nel settore dell’istruzione, oggetto di diverse misure di contenimento negli ultimi anni, il personale rappresenta una quota preponderante della spesa dello Stato a favore dell’istruzione – oltre il 95 per cento. I docenti della scuola statale sono circa 850 mila e contano per circa un terzo del comparto del pubblico impiego. Diverse analisi hanno segnalato che vi sono margini per migliorare l’efficienza del settore , riducendo il rapporto insegnanti su studenti. Al netto degli insegnanti di sostegno agli studenti diversamente abili, per i quali non è disponibile un congruente confronto internazionale, il rapporto insegnanti su studenti è, in effetti, in Italia tra 1,5 e 2 punti sopra la media OCSE e si è dimostrato piuttosto stabile nell’ultimo decennio, anche se con una graduale diminuzione di circa 0,2 punti rispetto al valore del 1995/1996. Le azioni di contenimento della spesa per l’istruzione degli ultimi anni muovono dal presupposto che i risparmi ottenibili da una riduzione della spesa per il personale dovrebbero essere investiti per innalzare la qualità dell’insegnamento tramite la valorizzazione della professione e interventi specifici diretti agli studenti e alle scuole in maggiore difficoltà”.  Nei primi cinque anni l’applicazione graduale della riforma produrrebbe, per il ministero dell'economia, sia a livello nazionale che a livello di macroarea, “una riduzione del fabbisogno strettamente necessario di docenti nella scuola statale primaria di circa 20 punti percentuali a parità di scenario demografico”. Dunque si prevede una riduzione enorme del personale docente, a fronte di un presunto calo della popolazione demografica. Tuttavia, “nel lungo periodo vi è ampia incertezza sull’intensità della riduzione che dipende dall’evoluzione demografica effettiva: al Nord e al Centro la riforma produrrebbe un calo della domanda, rispetto al livello richiesto oggi, del 10%-20%, al Sud del 30%-38%. Vi sono province in cui, anche in applicazione della riforma del maestro unico, l’evoluzione demografica produce una crescita del fabbisogno teorico di docenti nel breve periodo (in particolare Milano, Modena e Prato).Fino al 2020 vi è scarsa incertezza sul fabbisogno di docenti in tutte le aree geografiche: nei primi dieci anni la domanda di docenti nella scuola secondaria di I grado cresce, a livello nazionale in ciascuno scenario demografico, e ci si attende che nel 2020 sia maggiore di 4-7 punti percentuali rispetto all’anno base. Le maggiori esigenze di personale sono soprattutto al Centro-Nord. Al Sud la dinamica è opposta a quella che caratterizza la restante parte del paese: nei primi cinque anni la domanda di docenti cala del 3% circa e nel lungo periodo ci si attende un calo della domanda che - nello scenario peggiore - raggiunge il 15%”. Quindi,  il calo della domanda attesa di docenti è dovuta sia alla riduzione della popolazione in età scolastica che all’applicazione della riforma (con riduzioni pari fino a -15% nel 2015, tra il -22% e il -24% nel 2027). Insomma,questo sembra essere il momento della carota, ma quello del bastone, alla luce delle previsioni emergenti, che solo una lotta condivisa ed una sollevazione dell'intera comunità scolastica potrà arrestare, rischia  di essere duro per migliaia di lavoratori che operano in un settore tanto delicato quanto fondamentale per l'Italia dell'avvenire.



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