Sono
nato a Tropea, ma ho vissuto i primi 18 anni della mia vita a Vibo.
Un centro che ha oltre 8 mila anni di storia, e ciò, nel bene o nel
male, vorrà pur significare qualcosa. Erano diversi anni che non mi
recavo a Vibo Valentia ed il mio ritorno, seppure breve e per qualche
giorno, è stato carico e colmo di sensazioni, pensieri e diverse
reazioni emotive. Ho visto strade degne della peggior inciviltà,
immondizia ovunque ed in ogni dunque sperare, ho visto paesaggi
stravolti, la lenta invasione del business del terzo millennio,
impianti solari che annichiliscono le vecchie ed aspre campagne, ho
visto gente camminare nel vuoto, ma non ho più visto le tipiche
folle raggiungere la vasca nel canonico passeggio cittadino, una
sorta di laica litania ove il più alto dei peccati diveniva voce di
periferia e la voce di periferia entrava nel più borghese dei
salotti cittadini, ho visto gente camminare solo guardando il
cellulare, auto giostrare il tempo, degrado invadere ogni piccola
contrada e storica via, ho visto la storia continuare ad onorare il
suo male, ho visto quello che vi è sempre stato, una crisi
perdurante che scalfisce nella più dura roccia del sempre più
vicino Aspromonte, quell'abitudine alla rassegnazione che al battito
di ogni minuto e poi ora e poi giorno e settimane e mesi scandisce la
quotidianità nel nulla fare. Ma ciò che più mi ha colpito, senza
affondarmi nelle acque calde ed irrequiete del Tirreno è ciò che
non ho visto, ovvero la speranza . Mi sono vergognato della mia terra
d'origine. Ho urlato ed ancora urlato io solo perché sono nato qui,
vissuto qui i primi anni della mia crescita non significa che debba
essere chiamato calabrese, io non sono calabrese, io odio la mia
terra.
La
mia terra.
Ed
allora ho capito, pur nell'urlo del dolore, che altro il mio non era
che uno sfogo d'amore. Anche
io ho cercato il mio benessere individuale, migrante del sud in cerca
della felicità, perché in questa terra la felicità e difficile da
cercare e trovare, ho preferito seguire l'orma di milioni di
migranti, ho preferito andare via. Ed
è anche colpa mia se la Calabria e Vibo sono in queste condizioni,
perché nulla ho fatto per mutare le cose. Sì, ci ho provato, ma mi
sono fermato per andare via, lì ove soffia ora la mia amata bora. Avrei
voluto piangere, ma neanche questo ho fatto, perché Vibo non merita
più di essere bagnata da lacrime di sofferenza, merita reazione,
ribellione. Ho pensato ed urlato e gridato tra le mura che hanno
cullato e imprigionato la mia infanzia il mio voler rinnegare le
origini. Ma non l'ho fatto per il rispetto che nutro verso quelle
persone oneste, e ci sono e sono tante, che vivono quotidianamente in
questa parte d'Italia e di Sud e di Calabria, è per loro e solo per
loro, che affrontano ogni santo e poi maledetto e poi ancora santo
giorno mille peripezie per osare l'abbattimento del muro
dell'indifferenza che fomenta ogni omertà e complicità che vuole la
mentalità 'ndranghetista, disfattista, individualista, prevalere sul
bene comune. Il bicchiere o la bottiglia di leggiadria che puoi
incrociare per le strade strette e tristi di Vibo sono vuote,
vuote
perché si è bevuto tutto quello che si poteva bere, ed ora quel
bicchiere e quella bottiglia devono essere frantumati nella valle
dell'eco che domina il golfo lì ove fuma di tanto in tanto la bocca
dello Stromboli. Non mi vergogno di ciò che ho urlato, non mi
vergogno di ciò che ho pensato, non mi vergogno di non aver
rinnegato le mie origini.
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