L'amianto
è un minerale naturale che ha procurato per incuria, per profitto,
per disprezzo assoluto verso la vita umana, immani sofferenze.
I
dati diffusi e ben noti dell'istituto
superiore della Sanità stimano che in Italia il picco di mortalità
per malattie legate all’amianto si avrà, ahimè, tra
il 2015 e il 2020.
Monfalcone
e Trieste hanno il primato negativo di amianto nel nord est e
certamente quello più rilevante di tutta Italia ed a tal proposito è
certamente suggeribile la lettura del libro di Roberto Covaz, dal
titolo inequivocabile, Amianto.
Da
un lato troverai la burocrazia alimentare beffe a chi è stato
esposto a tale sostanza altamente nociva e mortale, e dall'altro
arrivare anche sentenze e condanne penali, certamente importanti, ma
che mai riporteranno in vita chi è stato ucciso dal senso del
profitto spregiudicato, chi è stato ucciso dal lavoro senza
sicurezza alcuna. Sentenze che mai restituiranno sorrisi a chi il
proprio sorriso ha perso per sempre per colpa di un sistema malefico
che ancora oggi continua a prendere in giro migliaia di lavoratori e
famiglie.
Migliaia
sono le pratiche ancora ferme o sospese presso gli istituti
previdenziali, i benefici previdenziali per i lavoratori esposti
all'amianto trovano la loro fonte normativa originaria nella L.
257/1992. La norma, nata per dettare disposizioni per la cessazione
dell'impiego dell'amianto, prevedeva misure diversificate di sostegno
per i lavoratori del settore. Nel corso del tempo sono intervenute
diverse modifiche, e la condicio sine qua non per avere il
risarcimento era l'aver maturato almeno un periodo di esposizione non
inferiore ai dieci anni. A ciò poi anche la giurisprudenza ha dato
il suo contributo, spesso negativo, per esempio la Cassazione
civile , sez. lavoro, sentenza 15.05.2002 n° 7048 affermava che
l'art.
13, comma 8, della l. 27 marzo 1992, n. 257, come sostituito
dall'art. 1 del d.l. 5 giugno 1993, n. 169, a sua volta modificato
dalla legge di conversione 4 agosto 1993, n. 271, che stabilisce il
beneficio previdenziale ai lavoratori che siano stati esposti
all'amianto per un periodo superiore a dieci anni, va interpretato
nel senso che il riconoscendo diritto alla ultravalutazione del
periodo lavorativo spetta a tutti coloro che, per essere stati a
contatto con polveri di amianto in una concentrazione significativa
(in quanto superiore alla soglia minima indicata dalla legislazione
prevenzionale), siano stati soggetti, in relazione alle mansioni
svolte ed al tempo di esposizione, al rischio effettivo, e non
meramente ipotetico, di contrarre le malattie che la sostanza è
capace di generare.
Ed
ecco partire perizie contro perizie, consulenze tecniche e d'ufficio
e nella eterogeneità della situazione, voluta dallo Stato, per far
cassa, si è ridotta sensibilmente la platea degli aventi diritto al
risarcimento danno, molti lavoratori sono incorsi per esempio nella
decadenza.
Ma
come si può ragionare in termini di prescrizione, di decadenza, di
dieci anni o meno di dieci anni, di rischio ipotetico od effettivo?
Chi è stato esposto all'amianto, che vive buona parte della sua vita
con il terrore di essersi ammalato, chi è stato esposto anche al
solo rischio di morire in modo a dir poco indicibile, ha diritto al
risarcimento danno solo anche per il mero rischio ipotetico. Questa
si chiama dignità e la dignità non ha prezzo.
Ma
un prezzo, per questo Stato, la dignità lo ha. E questo prezzo lo
pagano i diretti interessati, ogni giorno, ogni maledetto giorno da
quando sono venuti a conoscenza di essere stati esposti al rischio di
amianto.
Trovi situazioni paradossali dove pur essendo il
periodo di esposizione certificato dall'I.N.A.I.L ma pari a 9 anni
ed alcuni mesi, dunque di poco inferiore ai dieci anni
imposti dalla legge, ecco vederti negato un diritto che lo Stato
dovrebbe riconoscere a prescindere, anche come sola forma di
risarcimento di danno morale.
Ma,
come detto, le situazioni variano da regione a regione, ma anche da
città a città.
A
Pavia è in fase di elaborazione un progetto che prevede l’apertura
di uno sportello amianto che fornisca consulenza sanitaria e
amministrativa a pazienti e familiari e l’ambulatorio, secondo le
intenzioni, dovrebbe sorgere all’interno dell’ospedale di Broni,
a Monfalcone presso
l’Ospedale Civile S.Polo esiste uno sportello al servizio dei
cittadini e funziona due volte alla settimana, a Bari anche, e
probabilmente in tante altre realtà cittadine italiane. In Friuli
Venezia Giulia è recentemente emerso il caso che nel
Registro degli Esposti all’Amianto sono stati iscritti un numero
elevato di dipendenti ed ex della Guardia di Finanza, insomma il
rischio amianto è forte, attuale e non certamente superato e viste
anche le nefaste previsioni dell'Istituto superiore della Sanità,
non vi sono motivi comprensibili perché a Trieste, presso l'Ospedale
di Cattinara, non possa aprire uno sportello, a diretto contatto con
la popolazione, sull'amianto.
Sarebbe
una risposta importante e minima ed anche dovuta da parte delle
istituzioni locali.
Certo
pensando alla situazione di stallo ma anche di rigidità che riguarda la questione della
riapertura o meno del Centro prelievi a Cattinara, ciò potrebbe
lasciare perplessi sull'apertura o meno di uno sportello sull'amianto
a Cattinara, forse perché si vuole concentrare tutto presso il
presidio ospedaliero di Monfalcone, perché prevale la logica della
concentrazione. D'altronde nessuno pretende di avere l'ospedale sotto
casa, ma si deve ben tenere conto della particolarità di Trieste,
della composizione della sua popolazione e se buona sanità vuol
significare la centralità della persona ed in
relazione alla capacità del sistema di mantenere o recuperare lo
stato di salute del paziente per garantire una risposta assistenziale
di elevato livello tecnico e professionale in grado di soddisfare i
bisogni dei cittadini, lo sportello sull'amianto non può che aprire
così come dovrebbe riaprire anche il centro prelievi a Cattinara come richiesto da centinaia di cittadini.
Utopia minimalista?
Questione di volontà e di rispetto
della collettività.
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