Il tempo si è letteralmente fermato alla stazione di Miramare di Trieste

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Un gioiellino liberty di epoca asburgica, che consente di arrivare al castello di Miramare, attraversando il polmone verde di Trieste, che affascina il viaggiatore, perchè il tempo si è fermato in via Beirut, a  Grignano come in nessun altro luogo a Trieste.  Un gioiellino che è ora chiuso, ora aperto, ma che necessita di essere valorizzato, riqualificato. Purtroppo già in passato preso di mira da azioni di vandali, ragione per cui venne eliminato il glicine che caratterizzava la pensilina esterna, preso di mira con vandalismi che hanno comportato spese per migliaia di euro da parte di RFI per effettuare interventi di restauro di natura  conservativa. Quella piccola stazione affascina e non ha eguali in Italia, ed è auspicabile che si possano trovare le risorse, gli intenti, la volontà, per farla ritornare ai fasti di un tempo. Purtroppo il tempo fa il suo corso e dei lavori di manutenzione sono necessari per ripristinare quel bene storico che viene invidiato da chiunque si soffermi a

"G8, i vertici della polizia coprirono la vergognosa condotta dei poliziotti" : le motivazioni della sentenza della Corte di Appello

Nella fase degli atti preliminari il Procuratore Generale, che aveva proposto appello anche
nei confronti di FABBROCINI Alfredo, assolto dal Tribunale da tutte le imputazioni
ascrittegli, con dichiarazione depositata il 20/05/2009 rinunciava a tale impugnazione;
conseguentemente la Corte con ordinanza del 28/09/2009 dichiarava l’inammissibilità
dell’appello e l’esecutività dell’impugnata sentenza quanto alla posizione del predetto
Fabbrocini.
Alla prima udienza del 20/11/2009, verificata la costituzione delle parti, la Corte ordinava la
notifica del decreto di citazione a tutte le parti civili non appellanti, nonché la rinnovazione
della notifica del decreto di citazione nei confronti dell’imputato Fazio Luigi, di due difensori
e di alcune parti civili.
Successivamente la Corte, con ordinanze che qui vengono richiamate, decideva alcune
questioni preliminari sollevate dalle difese degli imputati e del responsabile civile:
all’udienza del 18/12/2009 respingeva le eccezioni formulate in riferimento alla
partecipazione al dibattimento, quali Sostituti del Procuratore Generale, dei Sostituti
Procuratori della Repubblica presso il Tribunale di Genova (che avevano sostenuto
l’accusa in primo grado) applicati ex art. 570 c.p.p., nonché alla esatta identificazione nel
decreto di citazione di alcune parti civili. Alla medesima udienza del 18/12/2009 veniva
stralciata la posizione dell’imputato Burgio Michele, in precedenza erroneamente
dichiarato contumace, e si disponeva nuova notifica del decreto di citazione al medesimo
Burgio; a tale udienza iniziava la relazione sulla causa;
alla successiva udienza del 10/02/2010, verificata la regolarità della citazione dell’imputato
Burgio, sul consenso delle parti il suo procedimento veniva riunito a quello principale;
terminava la relazione sulla causa, e le difese formulavano alcune eccezioni sulle quali la
Corte riservava la decisione;
all’udienza del 17/02/2010 veniva data lettura dell’ordinanza riservata, relativamente al
regime di utilizzabilità contra alios delle dichiarazioni predibattimentali rese dagli imputati
ed alle istanze di rinnovazione parziale del dibattimento al fine di esperire l’esame di alcuni
imputati;
quindi iniziava la discussione delle parti che con le repliche finali si protraeva fino
all’odierna udienza, nella quale la Corte decideva l’appello come da dispositivo di cui era
data pubblica lettura.
MOTIVI DELLA DECISIONE
LE QUESTIONI PRELIMINARI
In primo luogo debbono essere affrontate le questioni preliminari sollevate dalle parti
negli atti di impugnazione e nella discussione orale, relativamente alle questioni civili.
- E’ priva di fondamento in fatto la sollecitazione del Procuratore Generale ad utilizzare
le dichiarazioni predibattimentali rese dagli imputati anche “contra alios”, in assenza del
consenso a tale utilizzazione, perché ricorrerebbe la situazione prevista dall’art. 500,
comma 4° c.p.p. richiamata dall’art. 513, 1° comma c.p.p. (“violenza, minaccia, offerta o
promessa di denaro o di altra utilità”) sub specie di “minaccia” che avrebbe indotto gli
imputati a rifiutare di sottoporsi ad esame dibattimentale, con la speculare alternativa
sollecitazione a sollevare questione di legittimità costituzionale del sistema normativo ove
interpretato nel senso ostativo all’applicazione delle citate norme.
Gli elementi elencati dal P.G. a sostegno della tesi dell’esistenza di un clima di
intimidazione all’interno del Corpo di Polizia che avrebbe determinato la scelta degli
imputati che si sono avvalsi della facoltà di non rispondere non sono significativi in tal
senso; l’eventualità che le dichiarazioni potessero coinvolgere le responsabilità dei
superori gerarchici è elemento dalla valenza ambigua, perché la ritrosia al riguardo ben
potrebbe essere dettata anche da convinta solidarietà piuttosto che da timore; analoga
valutazione deve essere compiuta con riferimento a tutte quelle circostanze indicative di
ostacoli incontrati dagli inquirenti nell’accertamento della verità (mancata identificazione di
uno dei sottoscrittori del verbale di arresto, mancata identificazione - se non dopo la
conclusione del giudizio di primo grado - dell’agente ripreso mentre menava fendenti
all’interno della Diaz, detto “coda di cavallo” ecc.), elementi che dalla stessa pubblica
accusa non senza fondamento sono stati evidenziati a denuncia dell’atteggiamento di
malintesa solidarietà di corpo fronteggiata durante le indagini, come tale antitetica al
ritenuto clima di intimidazione; che il teste Guaglione Pasquale, al quale effettivamente si
deve la conferma che le bottiglie molotov sequestrate come reperti all’interno della scuola
Diaz provenivano in realtà da altro luogo, reputi di essere stato l’unica “testa caduta” per
essere stato discriminato (ma non è detto come) e per i rapporti personali in seguito
instauratisi con i colleghi appare veramente poco, soprattutto perché lo stesso Guaglione
ha premesso che “L’Amministrazione comunque credo che sia stata sempre corretta nei
miei confronti”.
Anche la richiesta di acquisire gli atti di indagine compiuti dal Comitato paritetico
parlamentare deve essere respinta, essendo il materiale probatorio acquisito nel corso del
dibattimento di primo grado ampiamente sufficiente a decidere la causa.
- L’Avvocatura dello Stato, per il Ministero dell’Interno, ha eccepito (in atto di appello
quanto a Troiani, ed in discussione orale quanto a Gava) che il responsabile civile non è
stato citato nel procedimento n. 1079/08 Trib. a carico di Troiani Pietro e Gava Salvatore
per i reati di falso, e che successivamente alla riunione di tale procedimento a quello
principale non vi è stata estensione della domanda eventualmente proposta da altre parti.
L’eccezione deve essere respinta; da un lato la stessa si presenta palesemente tardiva ai
sensi dell’art. 491 c.p.p. in quanto ogni questione inerente la citazione e l’interevento del
responsabile civile deve essere proposta a pena di decadenza subito dopo compiuto
l’accertamento della costituzione delle parti in primo grado (mentre nulla ha eccepito in
quella sede il Ministero dell’Interno con riferimento alle costituzioni di parte civile nei
confronti di Troiani e Gava con richiesta di condanna in solido del responsabile civile al
risarcimento dei danni); dall’altro lato l’eccezione è infondata nel merito perché la irritualità
della mancata citazione è sanata con la costituzione di parte civile nei confronti del
responsabile civile presente in dibattimento, attuandosi la regolare instaurazione del
rapporto processuale civilistico con le modalità del codice di procedura civile e quindi
anche con l’intervento nel processo mediante il deposito in udienza della comparsa di
costituzione (Cass. 3° sez pen. n. 10900 del 22/06/1990, principio generale applicabile
anche nel nuovo rito processuale penale).
- L’Avvocatura dello Stato ha altresì eccepito nella corso della discussione orale
l’inammissibilità degli appelli proposti dal Procuratore della Repubblica e dal Procuratore
Generale con riferimento alle imputazioni di calunnia per carenza di specifici motivi di
impugnazioei quanto all’elemento psicologico del reato, a nulla rilevando i motivi proposti
con riferimento all’imputazione di falso, non discendendo automaticamente dalla
responsabilità per il falso anche quella per la calunnia. L’eccezione è infondata. Il
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale a pagina 78 dell’atto di appello ha
espressamente lamentato la mancanza di motivazione nella sentenza impugnata a
sostegno della assoluzione dalle imputazioni di calunnia, richiamando espressamente le
proprie tesi in fatto e diritto sostenute nel corso del dibattimento di primo grado e
riepilogate nella memoria scritta conclusiva alle pagine da 488 a 499 alla quale è stato
fatto integrale riferimento; pertanto sul punto l’appello è tutt’altro che generico, avendo
richiamato esplicitamente, seppure per relationem, tutte le argomentazioni sostenute in
primo grado che il Tribunale avrebbe totalmente omesso di prendere in considerazione (e
di fronte del motivo di impugnazione incentrato sulla omessa pronuncia, non si vede come
possano essere altrimenti specifici i motivi di appello se non richiamando integralmente le
argomentazioni di primo grado ritenute completamente obliterate). In ogni caso, poco più
avanti, a pagina 79 il Procuratore della Repubblica lamenta la mancata considerazione
della circostanza che alcuni degli arrestati non erano presenti all’interno della scuola Diaz,
malgrado il contrario sia stato falsamente sostenuto nei verbali di perquisizione e di
arresto, circostanza che a detta dell’appellante avrebbe dovuto essere valutata anche
perché significativa del dolo della calunnia, in quanto attestante la consapevolezza in capo
agli imputati della innocenza degli accusati.
Anche il Procuratore Generale ha affrontato nel suo appello il tema della calunnia,
richiamando a pagina 39 la decisione della Corte di Cassazione sulla imputazione coatta a
carico di Troiani e Gava e rimarcando come non poteva che esservi consapevolezza che
la consegna, anche nelle sole modalità ammesse, di un corpo di reato di cui si aveva
l’obbligo di giustificare l’apprensione e la detenzione, portava alla creazione di un
collegamento inesistente fra i soggetti sottoposti a perquisizione perché occupanti l’edificio
scolastico e il corpo di reato.
- L’Avvocatura dello Stato ha altresì eccepito nella corso della discussione orale che le
imputazioni di falso sarebbero state contestate con riferimento alla fattispecie semplice, e
non aggravata dalla natura fidefacente degli atti asseritamente falsi, mancando ogni
esplicito riferimento lessicale e/o normativo all’aggravante di cui all’art. 476, 2° comma
c.p.. Come anche recentemente ribadito dalla Suprema Corte (Sez. 5, Sentenza n. 11944
del 05/12/2008 – 18/03/2009) “La contestazione dell'aggravante prevista dall'art. 476 c.p.,
comma 2, relativa al fatto che la falsità riguardava un atto facente fede fino a querela di
falso, deve ritenersi essere avvenuta regolarmente. Il richiamo che l'art. 479 c.p. fa dell'art.
476 c.p. ai fini della individuazione della pena, comprende anche il secondo comma che
disciplina l'aggravante. Nel capo di imputazione l'atto contenente la falsità è stato
esattamente identificato e se esso, a seguito della qualificazione giuridica fatta dal giudice,
viene ad essere ritenuto come atto pubblico munito di fede privilegiata, l'aggravante è
regolarmente contestata, anche se non c'è stata una specifica menzione della particolare
natura dell'atto o il richiamo dell'art. 476 c.p., comma 2.” (in precedenza Cass. Sez. 5,
Sentenza n. 38588 del 16/09/2008 “Ai fini della contestazione di una circostanza
aggravante non è indispensabile una formula specifica espressa con enunciazione
letterale, né l'indicazione della disposizione di legge che la prevede, essendo sufficiente
che, conformemente al principio di correlazione tra accusa e decisione, l'imputato sia
posto nelle condizioni di espletare pienamente la difesa sugli elementi di fatto integranti
l'aggravante. (Fattispecie in tema di circostanza aggravante "ex" art. 476, comma
secondo, cod. pen.). Consegue che il tema proposto non involge una questione
preliminare in senso stretto, ma involge la valutazione di merito circa la fondatezza
dell’accusa e la qualificazione giuridica degli atti indicati nei capi di imputazione, al fine di
verificare se gli stessi sono muniti della caratteristica della fede privilegiata necessaria per
ravvisare l’aggravante di cu al 2° comma dell’art. 476 c.p.; e tale analisi verrà svolta in
prosieguo quando sarà affrontato il merito della contestazione.
- L’Avvocatura dello Stato ha altresì eccepito nella corso della discussione orale
l’inammissibilità degli appelli proposti relativamente all’imputazione di peculato a carico di
Gava Salvatore per assenza di specifici motivi, soprattutto in considerazione del fatto che
la condotta di appropriazione sarebbe stata tenuta da altri operatori di Polizia. L’eccezione
è infondata perché il tema è affrontato espressamente dal Procuratore della Repubblica a
pagina 106 del suo appello, ove censura la tesi difensiva fatta propria dal Tribunale
secondo la quale il Gava si sarebbe fermato al secondo piano dell’edificio Pascoli, senza
avere così cognizione dei fatti accaduti ai piani superiori. L’appellante, nel richiamare le
argomentazioni sostenute in primo grado circa la presenza di numerosi riscontri al fatto
che Gava avesse visionato tutti i piani della scuola, argomenta che in tal modo la sua
responsabilità anche per fatti compiuti da terzi, quali il peculato, emerge dalla omissione di
qualunque intervento repressivo malgrado la consapevolezza piena di quanto stesse
accadendo. La Corte è quindi legittimamente e ritualmente investita dell’onere di
cognizione anche su tale questione.
- L’Avvocatura dello Stato ha altresì eccepito nella corso della discussione orale
l’inammissibilità dei due appelli proposti dal Genoa Social Forum, sostenendo che dopo la
proposizione del primo appello si sarebbe consumato il potere di impugnazione, con
conseguente inammissibilità del secondo appello. L’eccezione è infondata, in quanto come
stabilito dalla Suprema Corte (Cass. pen sez. 4° n. 40275 del 28/09/2006) “finché non sia
interamente decorso il termine per proporre la impugnazione, la medesima parte
processuale (sia imputato, parte civile o responsabile civile) che presenti ulteriori motivi,
non incorre nel limite della presentazione di motivi aggiunti ex art. 585 c.p.p., comma 4, e
quindi vincolati ai capi e ai punti dell'originario atto di gravame (Cass. Sez. 4, 2.2.2005 n.
3453, Nwobodo ed altri; Cass. Sez. 2 4.11.2003 n. 45739, Marzullo). Infatti, per i motivi
aggiunti o nuovi di cui all'art. 585 c.p.p., comma 4 il termine di presentazione è fino a
quindici giorni prima dell'udienza, e il loro scopo è quello di meglio illustrare le ragioni di
gravame già dedotte, nel caso anche con argomenti nuovi, ma che non travalichino i capi
e i punti dell'originario atto di gravame. La presentazione, invece, di un ulteriore atto di
gravame nei termini previsti dall'art. 585 c.p.p., commi 1 e 2, incontra il solo limite del
riferimento al contenuto o all'omissione di contenuto del provvedimento impugnato, non
essendo logico, ne' previsto da alcuna norma che la sollecita e anticipata presentazione
dell'atto di impugnazione pregiudichi in maniera definitiva la proposizione di questioni che
la parte aveva ancora diritto di proporre per censurare la decisione gravata, non essendo
scaduto il termine, nella specie, per l'appello; diversamente si apporrebbe un illegittimo
limite alla cognizione del procedimento di impugnazione, pur in presenza di gravami
tempestivamente proposti. Poiché entrambi gli appelli proposti dal GSF (il primo nei
confronti di Canterini Vincenzo, Fournier Michelangelo, Tucci Ciro, Lucaroni Carlo,
Zaccaria Emiliano, Cenni Angelo, Ledoti Fabrizio, Stranieri Pietro e Compagnone
Vincenzo, il secondo nei confronti di Burgio Michele e Troiani Pietro) sono tempestivi e
concernono diversi vizi della sentenza di primo grado, anche il secondo appello è
ammissibile.
- L’Avvocatura dello Stato ha altresì eccepito nella corso della discussione orale
l’inammissibilità della impugnazione proposta dalla parte civile Fassa Liliana nei confronti
degli appellanti principali Ministero dell’Interno, Canterini Vincenzo, Burgio Michele e
Troiani Pietro perché, tardivo quale appello principale, era inammissibile quale appello
incidentale in quanto, avendo per oggetto la doglianza circa il mancato riconoscimento del
proprio diritto al risarcimento dei danni malgrado la condanna penale degli imputati
predetti, era estraneo ai punti della decisione oggetto dell'appello principale. Ha replicato
sul punto la difesa della Fassa Liliana argomentando che riguardando i motivi di
impugnazione proposti dagli imputati non solo la loro responsabilità penale ma anche la
riforma della pronuncia di primo grado ai fini civili e, comunque, in base all’effetto
estensivo dell’impugnazione dell’imputato ai sensi dell’art. 574 c.p.p., il proprio appello
incidentale era ammissibile.
L’eccezione è in questo caso fondata. La domanda civilistica proposta dalla Fassa Liliana
è stata respinta non perché gli imputati nei cui confronti era stata proposta siano stati
assolti, bensì perché il Tribunale ha ritenuto, malgrado l’affermazione di responsabilità
penale, che la Fassa Liliana non fosse titolare di danno risarcibile quale parente della
parte offesa dai reati. È evidente che su tale punto della decisione gli appelli degli imputati
sono del tutto indifferenti, posto che gli stessi hanno contestato la propria responsabilità
penale e le conseguenti condanne civilistiche statuite a favore delle altre parti civili, non
avendo certo interesse né legittimazione a disquisire sulla sussistenza in capo alla Fassa
di danno risarcibile. Tale capo della decisione che è autonomo e non dipende dalla
affermazione di responsabilità penale, doveva essere autonomamente e tempestivamente
impugnato dalla Fassa, perché la statuizione di cui ella si duole ed i suoi presupposti
sarebbero rimasti immutati a seguito del solo appello principale degli imputati e del
responsabile civile. Analogamente non può operare alcun effetto estensivo
dell’impugnazione degli imputati ex art. 574 u.c. c.p.p. perché questo si verifica con
riferimento alla condanna al risarcimento e alle restituzioni, condanna che nel caso di
specie a favore della Fassa non è stata pronunciata. Né, infine, la Fassa può invocare
l’effetto estensivo delle impugnazioni proposte dalle altre parti civili e dalla pubblica
accusa, che non riguardano il tema dell’esistenza del danno riflesso in capo alla
medesima.
Consegue che l’appello incidentale proposto da Fassa Liliana deve essere dichiarato
inammissibile.
- La difesa dell’imputato Gava nella memoria del 17/03/2010 ha eccepito
l’inammissibilità degli appelli della pubblica accusa con riferimento ai capi U) e V) per gli
stessi motivi enunciati dal responsabile civile. L’eccezione è infondata per i motivi sopra
esposti a rigetto della identica eccezione sollevata dall’Avvocatura dello Stato, posto che a
pag. 106 del suo atto di appello il Procuratore della Repubblica ha argomentato le proprie
ragioni di impugnazione con riferimento ad entrambi i capi di imputazione sopra riportati.
- I difensori degli imputati Troiani e Burgio hanno eccepito l’inammissibilità dei motivi di
impugnazione relativi all’entità della pena inflitta, quanto all’appello del Procuratore della
Repubblica perché la memoria aggiuntiva datata 30/03/2009 che ne tratta è tardiva e
contiene motivo nuovo rispetto a quelli sviluppati nell’appello tempestivo; quanto
all’appello proposto dal Procuratore Generale per genericità del motivo. L’eccezione è
infondata perché nel punto III del suo appello il Procuratore Generale ha ampiamente
argomentato la richiesta di aumento delle pene per tutti gli imputati evidenziando la gravità
dei fatti, la qualifica soggettiva degli imputati, l’eco negativa dei fatti in oggetto anche a
livello internazionale, e censurando il riconoscimento di circostanze attenuanti generiche,
nonché il giudizio di bilanciamento operato dal Tribunale. La Corte, pertanto, è ritualmente
investita anche della cognizione relativamente all’entità del trattamento sanzionatorio nei
confronti di tutti gli imputati.
L’IRRUZIONE NELLA SCUOLA DIAZ - PERTINI
La vicenda in esame può essere compiutamente valutata esaminando le fasi della genesi
dell’operazione, delle modalità di organizzazione, e delle concrete modalità di svolgimento.
GENESI DELL’OPERAZIONE
Al riguardo la ricostruzione operata dal primo giudice mediante il riferimento
principalmente alla deposizione del Prefetto Andreassi non è oggetto di censura da alcuna
delle parti appellanti sotto il profilo della maturazione della decisione, mentre è stata
criticamente valutata dal Procuratore della Repubblica in ordine alla ricostruzione di alcuni
fatti posti a fondamento della decisione stessa ed al giudizio complessivo da attribuire a
tale fase con riferimento agli accadimenti successivi.
Può dirsi così pacifico in causa che il sabato 21 luglio 2001, quando la manifestazione
ufficiale del vertice “G8“ era terminata, così come erano finite le manifestazioni delle
numerose organizzazioni dissenzienti, dal Capo della Polizia giunse la direttiva di affidare
al Dott. Gratteri del Servizio Centrale Operativo il compito di effettuare perquisizioni, in
particolare presso la scuola Paul Klee (ove si sospettava si fossero rifugiati appartenenti al
gruppo violento di tipo Black Bloc), mentre nel pomeriggio giunse a Genova, sempre
mandato dal Capo della Polizia, il Prefetto La Barbera (originariamente coindagato nel
presente procedimento, e poi deceduto) per dirigere le operazioni, in particolare la
predisposizione di c.d. “pattuglioni” con il compito di perlustrare la città alla ricerca dei
Black Bloc. Il fine di tali direttive era chiaro ed è stato ben compreso dal Prefetto Andreassi
così come da tutti gli altri protagonisti delle riunioni preparatorie dell’irruzione tenutesi in
Questura: si doveva riscattare l’immagine della Polizia, che nei giorni precedenti era
sembrata inerte di fronte ai gravissimi episodi di devastazione e saccheggio cui era stata
sottoposta la città, e a ciò doveva provvedersi mediante arresti; era quindi necessaria una
attività più incisiva per la quale erano stati mandati da Roma funzionari apicali che,
evidentemente, subentravano a tal fine a quelli locali di Genova. (dep. Andreassi “La
direttiva di affidare l’incarico al dr. Gratteri preludeva a mio parere a voler passare ad una
linea più incisiva con arresti, per cancellare l’immagine di una polizia rimasta inerte di
fronte agli episodi di saccheggi e devastazione…. Il capo della polizia voleva che
venissero fatti dei pattuglioni, affidati non alla polizia locale, ma a funzionari della squadra
mobile e dello SCO. I pattuglioni erano diretti a trovare ed arrestare i black bloc”; dep
Colucci, allora Questore di Genova “Certamente ero piuttosto condizionato dalla presenza
dei vertici della polizia; capii che l’intervento era ben gradito…”).
La modalità tecnica scelta per intervenire è stata la perquisizione ad iniziativa di P.G. ex
art. 41 TULPS. La scelta dell’obiettivo è caduta sulla scuola Diaz a seguito dell’episodio
della aggressione al convoglio di veicoli della Polizia in Via Cesare Battisti nei pressi del
predetto edificio scolastico, e di quella che è stata ritenuta la conferma della fondatezza
del sospetto di presenza di armi (o meglio di black bloc e, quindi, di armi) indicata nella
telefonata intercorsa far il Capo della DIGOS Dott. Mortola e KOVAC, coordinatore del
GSF.
Ritiene la Corte che le finalità dell’iniziativa assunta dal capo della Polizia e la forma
tecnico-giuridica adottata (perquisizione) debbano essere unitariamente valutate per la
loro intima connessione al fine di comprendere la condotta tenuta dagli operatori di Polizia
nel predisporre ed eseguire l’operazione di ingresso nella scuola Diaz. L’esortazione ad
eseguire arresti, di per sé considerata, anche fosse indicativa di rimprovero implicito per
precedente colposa inerzia, sarebbe stata comunque superflua, essendo in ogni caso gli
operatori di P.G. tenuti ad eseguire gli arresti nella ricorrenza dei presupposti di legge
dettati nel codice di rito (tralasciate le ipotesi di arresto facoltativo, estranee alla gravità dei
fatti in questione). E poiché i fatti di devastazione e saccheggio erano ormai conclusi non
era evidentemente immaginabile eseguire arresti in flagranza a tale titolo, sì che la
perquisizione alla ricerca di armi era lo strumento tecnico giuridico più idoneo per
procedere ad eventuali arresti in caso di effettivo reperimento di armi.
Ma anche per procedere alla perquisizione non è sufficiente un sollecito da parte del Capo
della Polizia, bensì occorre pur sempre il sospetto della presenza di armi illegalmente
detenute.
La sperimentazione di tale tecnica operativa al mattino presso la scuola Paul Klee, ove
erano avvenuti arresti dei presenti con l’imputazione di associazione a delinquere
finalizzata alla commissione di reati di devastazione e saccheggio, ma con esito
processuale del tutto negativo, essendo stati tutti gli arrestati messi in libertà o
direttamente dal GIP o dallo stesso P.M. poco dopo, se da un lato costituisce conferma
che i vertici della Polizia avevano individuato in tale strumento giuridico l’unica possibilità
di procedere ad arresti di massa di presunti Black Bloc, dall’altro, visto l’esito processuale,
lungi dal costituire conferma della buona fede degli odierni imputati in ordine ai reati di
falso, calunnia e arresto illegale, costituiva ineludibile precedente storico che determinava
la consapevolezza che l’operazione di perquisizione locale in un edificio pubblico come
una scuola e l’eventuale sequestro di armi non potevano condurre all’attribuzione
generalizzata ed indistinta a tutti i presenti dell’illegittima detenzione delle armi,
necessitando la contestazione dei relativi reati la indicazione di precisi elementi di fatto
individualizzanti in ordine alle singole condotte ascritte a ciascun arrestato. Ciò che rileva
in questo processo di tale precedente non è infatti la mancata contestazione ai poliziotti
partecipanti a quella operazione degli stessi titoli di reato per i quali è oggi giudizio
(evenienza non valutabile in questa sede alla quale quel procedimento è estraneo) quasi
che tale circostanza integrasse una sorta di “patente” abilitativa a ripetere comportamenti
analoghi, quanto piuttosto l’esito processuale dell’operazione che quale fatto storico
indiscutibile avrebbe dovuto condurre a rimeditare le modalità di utilizzo del predetto
strumento tecnico (perquisizione ad iniziativa) al fine di eseguire legittimi arresti.
Il binomio “esortazione ad eseguire arresti” e scelta dello strumento “perquisizione ex art.
41 TULPS” conduce a ritenere che l’ampio margine di discrezionalità che connota la
decisione di procedere alla perquisizione deve essere apprezzato non tanto sotto il profilo
della legittimità formale dell’operazione, quanto sotto quello delle modalità esecutive della
stessa.
Il Tribunale e le parti hanno a lungo disquisito sull’episodio dell’aggressione della pattuglia
in via Cesare Battisti che ha determinato la decisione di procedere alla perquisizione alla
scuola Diaz, e sulla conferma della fondatezza del sospetto di presenza di appartenenti al
Black Bloc che sarebbe stata fondatamente tratta dal tenore della conversazione
telefonica intercorsa fra Mortola e Kovac; all’esito il Tribunale ha ritenuto di dover
affermare la legittimità della decisione di procedere alla perquisizione.
Ritiene la Corte che tale valutazione di legittimità sia irrilevante ai fini di accertare la
responsabilità per i capi di imputazione in questione, e che i temi sopra indicati debbano
essere analizzati al fine di stabilire quali realistiche ipotesi erano formulabili da parte dei
vertici della forze di polizia e, conseguentemente, se le modalità esecutive dell’operazione
siano state coerenti o meno con tali ipotesi.
Esaminando il fatto dell’aggressione della pattuglia che è transitata per via Cesare Battisti,
la Corte rileva che nel contrasto sulle opposte versioni fornite dagli imputati e dai testi
appartenenti alla Polizia, da un lato, e da numerosissimi altri testi, dall’altro, la conclusione
che può trarsi è quella in definitiva sposata anche dal Tribunale, e cioè che al passaggio
del convoglio di quattro mezzi, di cui gli ultimi due con le insegne di istituto, numerose
persone presenti in strada nei pressi del cortile della Diaz proferirono insulti all’indirizzo
degli agenti, e venne lanciata una bottiglietta probabilmente di vetro. La smentita alla
versione più grave fornita da alcuni agenti di Polizia secondo i quali ci sarebbe stato un
tentativo di ribaltare il “Magnum” e sarebbero stati lanciati oggetti vari, tra cui sassi, e
talmente pesanti che uno avrebbe infranto un vetro blindato, si rinviene nella deposizione
del teste dott. COSTANTINI, medico del tutto estraneo a qualsiasi organizzazione tanto
dei black-bloc quanto dei c.d. no global (egli ha riferito del lancio di una bottiglia, desunto
peraltro solo dal rumore dell’infrangersi dell’oggetto di vetro, ed ha escluso assolutamente
lanci di oggetti d’altro tipo; ha escluso anche colpi portati a distanza ravvicinata dalle
persone che erano a più immediato contatto con le vetture, e richiesto di ulteriori
particolari, ha precisato di aver osservato molto attentamente la scena, proprio perché il
passaggio forzoso di due auto tra la folla era certamente pericoloso e poteva provocare
danni alle persone), e dell’agente Weisbrod Daniela, del Reparto Prevenzione Crimine
Campano di Napoli, facete parte della pattuglia in questione a bordo del terzo veicolo
(Subaru con insegne), la quale ha riferito: ”non hanno aperto gli sportelli, io avevo il
finestrino aperto perché fumavo in macchina, non hanno lanciato roba, facevano... così,
come rivolta, cioè cercavano di incuterti paura, non è che c'hanno sballottato, io avevo la
Subaru, la Subaru non aveva niente di anomalo… comunque, si sono spostati, quando è
partita la macchina davanti si sono spostati.”
La Corte non condivide l’assunto sostenuto dal Tribunale secondo il quale il predetto
episodio, come sopra ricostruito, possa “aver indotto i dirigenti delle forze dell’ordine a
ritenere che in tale scuola non si trovassero soltanto manifestanti pacifisti, no global, vicini
al GSF, ma anche facinorosi e appartenenti al c.d. black block” in quanto i numerosi
giovani autori dell’aggressione erano “evidentemente provenienti dalla scuola Diaz
Pertini”.
L’argomentazione soffre di alcune carenze nella logica consequenzialità che dovrebbe
sostenere il sillogismo. Assume preliminare rilevanza la collocazione temporale
dell’episodio che, contrariamente a quanto riferito della comunicazione di notizia di reato, è
accaduto non alle ore 22,30, bensì fra le ore 20,00 e le ore 21,00; ciò emerge dal
concorde tenore delle deposizioni dei presenti (Paoletti Marisa Rosa, Cravero Clara,
Carboni Massimiliano, Nanni Matteo, Di Pietro Ada Rosa, Alberti Massimo, Wagenschein
Kirsten, Bria Francesca, Testoni Laura, Valenti Matteo Massimo, Ghiara Malfante, Messuti
Raffaele) nonché dal fatto che tempo dopo tale fatto, a seguito della prima riunione
tenutasi in Questura, intervenne la telefonata fra Mortola e Kovac, telefonata che tale
ultimo teste colloca tra le ore 21,00 e le ore 21,30.
Consegue che l’episodio in questione avvenne almeno tre ore prima dell’ingresso della
scuola Pertini (secondo la cronologia dei fatti cui si farà in seguito più ampio riferimento);
per cui, se anche si volesse istituire un certo legame spaziale fra i giovani che insultarono
la pattuglia e la scuola Diaz (ma allora, per coerenza, non solo con la scuola Pertini ma
anche con la Pascoli) per il solo fatto che in quel momento gli stessi si trovavano nei
relativi cortili, tuttavia in mancanza di altri elementi nulla autorizzava a pensare che gli
stessi soggetti, ritenuti “evidentemente” provenienti dalle scuole (come se ciò istituisse un
legame di appartenenza spaziale significativo dal punto di vista delle responsabilità
soggettive) si sarebbero trovati tre ore dopo all’interno dell’istituto.
Il secondo salto logico che inficia il predetto sillogismo consiste nel ritenere che i giovani
facinorosi, per il solo fatto di aver aggredito verbalmente la pattuglia, potessero essere
considerati appartenenti al c.d. Black Bloc. Occorre al riguardo fare chiarezza sulla
locuzione Black Bloc e sulla attribuibilità della relativa qualifica soggettiva. Il termine Black
Bloc non individua una particolare e specifica associazione di soggetti, ma solo una
tecnica di guerriglia adottata da estremisti che intendono manifestare violentemente il loro
dissenso rispetto a eventi o simboli del sistema capitalista: si tratta di una tecnica sorta in
Germania e utilizzata in diverse occasioni in altri stati, quale in particolare gli Stati Uniti
d’America. Al di là del modus operandi che in qualche modo individua tale tecnica, l’unico
elemento soggettivo che ne accomuna i fautori è l’uso di abbigliamento e di maschera
neri, da cui il nome della tecnica. Ciò premesso risulta evidente che non esiste una sorta
di “tipo di autore” definibile Black Bloc, e come tale individuabile senza ombra di dubbio
per il solo colore dell’abbigliamento usato. In altri termini gli autori delle devastazioni e
saccheggi compiuti a Genova durante il vertice G8 del 2001 erano riconoscibili come tali o
perché colti nella flagranza dei relativi reati, o, secondo le ordinarie regole di valutazione
della prova indiziaria, per il concorso di elementi oggettivi sintomatici della responsabilità,
fra i quali il colore nero dell’abbigliamento o il possesso di maschere nere hanno un ruolo
certamente utile ma non risolutivo.
Tornando all’episodio dell’aggressione alla pattuglia, le motivazioni che l’hanno
determinato potevano essere le più disparate (non ultima il fastidio di un assembramento
di persone per essere attraversati da una pattuglia della polizia che “disturbava”
apparentemente senza motivo e, quindi, soggettivamente anche con intento provocatorio),
sì che in mancanza anche di quell’elemento minimo tipico individualizzante costituito
dall’abbigliamento nero (giustamente non menzionato dal Tribunale perché non verificato)
l’episodio di per sé non consentiva di identificare gli autori della violenza come Black Bloc,
intesi quali autori delle violenze dei giorni precedenti (per la verità un teste appartenente
alla Polizia, Crispino Domenico, ha riferito che i ragazzi “erano vestiti di scuro”, ma il
manifesto pudore che ha impedito di dire che erano vestiti di nero, circostanza non riferita
da nessuno degli altri numerosissimi testi, priva di qualsivoglia significato tale
annotazione).
Il secondo fatto da valutare sotto il profilo della scelta di eseguire la perquisizione presso
la scuola Diaz è costituito dalla telefonata intercorsa fra Mortola e Kovac, ulteriore
elemento apprezzato dal Tribunale come giustificazione del sospetto che nella scuola vi
fossero appartenenti al Black Bloc e, quindi (si desume per logica non per espressa
argomentazione) armi illegalmente detenute. Il contrasto fra le versioni fornite dai due
protagonisti dell’evento, desumibile dal contenuto delle dichiarazioni riportate nella
sentenza appellata ed alla quale si rinvia per speditezza, è stato risolto dal Tribunale
attribuendo maggiore credibilità alla versione dell’imputato Mortola piuttosto che a quella
del teste Kovac. L’operazione ermeneutica di per sé non è impossibile ma, a fronte del
vincolo che lega il testimone a dire la verità, e alla piena facoltà dell’imputato di mentire
senza conseguenze, necessita di robusta e approfondita argomentazione ancorata a solidi
riscontri oggettivi. Di tali caratteristiche, viceversa, è priva l’argomentazione sostenuta dal
Tribunale, che si fonda sostanzialmente su un vero e proprio pregiudizio in danno del teste
Kovac. Tale deve essere valuta l’affermazione del Tribunale secondo la quale la smentita
del Kovac di aver riferito al Mortola che il GSF non aveva più il controllo delle persone
presenti nella scuola Diaz è inattendibile perché “se anche il Kovac avesse in effetti
espresso qualche riserva circa le persone che si trovavano all’interno della Pertini, ovvero
sull’effettivo controllo di tale stabile da parte del GSF, ben difficilmente, dopo quanto
accaduto, l’avrebbe ammesso”. In sostanza il primo giudice attribuisce la patente di
inattendibilità al Kovac addirittura in via eventuale (“se anche avesse espresso…” e quindi
preventiva cioè, con espressione non elegante ma significativa, “a prescindere”. Il
paradosso è evidente: il Tribunale non afferma che la deposizione del Kovac contiene
affermazioni contrarie al vero, ma sostiene che Kovac sarebbe comunque inattendibile
qualsiasi cosa abbia detto allora a Mortola, per cui finisce per privilegiare la tesi
dell’imputato.
In secondo luogo è errata l’interpretazione fornita dal Tribunale alle dichiarazioni
testimoniali rese da Kovac; egli, dopo aver riferito di aver ricevuto la telefonata del dott.
Mortola con la quale gli si chiedevano notizie sull’utilizzo delle due scuole Pertini e Pascoli
e su chi fosse presente all’interno, ed aver risposto che alla Pascoli c’era l’ufficio stampa e
alla Pertini l’internet point e alcune decine di persone che dormivano (in quanto ivi giunte
da altri punti di raccolta non più agibili a causa del violento temporale del venerdì
precedente), insospettito della telefonata ne chiese il motivo al Mortola; questi riferì
l’episodio del lancio della bottiglia alla pattuglia in transito per Via Cesare Battisti, al che il
Kovac si rivolse all’interlocutore con la frase “non fate cazzate” alla quale Mortola rispose
“no, no, stai tranquillo”. Continua la deposizione Kovac riferendo che in tal modo si era
conclusa la telefonata, aggiungendo “e io, devo dire, con il senno di poi, colpevolmente,
non gli diedi grande peso”, e più oltre “Cercai a lungo di capire se nella prima telefonata
con il dr. Mortola potessi aver detto qualcosa che avesse potuto influire su quanto
accaduto; mi sentivo responsabile per la mia inazione dopo la telefonata, per non aver
avvisato che poteva arrivare una perquisizione; potevano far venire giornalisti e
parlamentari; mi rimproverai di essermi fidato della parola del dott. Mortola”.
Argomenta il Tribunale da tale ultimo inciso che evidentemente il Kovac doveva aver detto
qualcosa che aveva messo in sospetto il Mortola circa la presenza delle persone nelle due
scuole, tanto da pentirsi in seguito, visto l’accaduto, di quanto aveva detto in tale
telefonata. In realtà il senso della frase riferita dal Kovac è un altro: egli si rimprovera di
essersi fidato della parola del Dott. Mortola “no, no stai tranquillo” e di non aver ipotizzato
che l’incomprensibile interesse manifestato sulle due scuole motivato con il riferimento
all’episodio dell’aggressione potesse preludere ad un intervento della polizia; lo scrupolo di
interrogarsi se per caso inavvertitamente avesse detto qualcosa che potesse aver
determinato l’intervento non significa aver ammesso nulla di quanto il Tribunale inferisce, e
cioè di aver comunicato al Mortola che le due scuole non erano più sotto il controllo del
GSF. Anche perché tale circostanza è stata negata recisamente dal Kovac,
argomentandola con la oggettiva presenza in loco di tutti i rappresentanti delle varie
organizzazioni affiliate al GSF, per cui noi avrebbe avuto alcun senso riferire una
circostanza così contraria alla realtà. Anche la risposta data alla domanda del P.M. se
esso Kovac poteva escludere di aver dichiarato che la situazione all’interno della scuola
Pertini non era più sotto il loro controllo è stata mal interpretata dal Tribunale: la risposta
“Non posso … posso ribadire quello che ho detto prima, cioè non ho detto questa cosa
anche perché le due scuole sono esattamente una di fronte all’altra, a distanza, forse, di
20 metri, l’una dall’altra e appunto, tutti i maggiori responsabili, non so come dire, dirigenti
se vogliamo dire così, del Genoa Social Forum, in quel momento, si trovavano lì” non
consente di interpretare quel primo “non posso” seguito nella trascrizione dai punti di
sospensione come una risposta definitiva equiparabile a “No, non posso escludere di aver
detto ciò”: in realtà, sia perché la frase è rimasta in sospeso, sia perché la prosecuzione
immediatamente successiva è di segno diametralmente opposto (“cioè non ho detto
questa cosa…”) non può attribuirsi alla deposizione del Kovac il significato di una
ammissione circa l’aver riferito a Mortola che il GSF non aveva più il controllo delle due
scuole. Né, infine, alcuna valenza utile a giustificare l’opinione che i dirigenti della polizia si
sarebbero formati, può desumersi dal fatto che venne comunicato al Mortola che persone
già ricoverate in altri punti di raccolta avevano raggiunto la scuola Pertini per ivi trascorrere
la notte, in quanto non si vede come da tale informazione potesse desumersi la presenza
di “Black Bloc“ all’interno dell’edificio.
La successiva attività di verifica compiuta dall’imputato Mortola, che si recò in motocicletta
nei pressi della scuola e ritornò riferendo che vi erano numerosi giovani vestiti di scuro che
bevevano birra ed avevano aria pericolosa, per la sua estrema genericità e per la
soggettività dell’impressione sulla “pericolosità” non è significativa di nulla; in particolare
non poteva sfuggire ad esperti vertici della Polizia, ed in particolare ad uno studioso dei
movimenti violenti quali il Dott. Luperi, che i Blak Bloc si manifestano nella loro “divisa” da
combattimento solo durante le azioni violente (appunto per farsi riconoscere e
rivendicarle), ma non certo quando stazionano tranquillamente per le pubbliche vie
(ammesso e non concesso che si radunino in pubblico per fini non violenti).
Il Tribunale, poi, a ulteriore sostegno della fondatezza del sospetto di presenza di armi
nella scuola, cita deposizioni che sono state assunte dopo i fatti ed informazioni che
comunque non erano state oggetto di valutazione organica a fini investigativi, tanto che
l’unica motivazione alla scelta di eseguire la perquisizione contenuta negli atti e sostenuta
dalle difese in causa è sempre stata esclusivamente l’aggressione alla pattuglia in Via
Cesare Battisti.
In conclusione, e tornando al tema iniziale delle ipotesi formulabili in relazione alle due
predette circostanze (l’assalto alla pattuglia ed il colloquio fra Mortola e Kovach che,
occorre ricordarlo, secondo la tesi della Polizia sono state le uniche ad aver determinato la
scelta di operare la perquisizione alla Diaz) il sospetto che all’interno dei due edifici
scolastici potessero esserci appartenenti al c.d. “Black Bloc” e, quindi, armi era
particolarmente labile, potendosi al massimo ipotizzare che alle persone legittimamente
presenti nella scuola Pertini (che la Pascoli continuasse ad essere sede del GSF era
pacifico) si fossero aggiunte altre persone non immediatamente identificate dai
responsabili del GSF. Ciò che sicuramente non risulta vero è quanto affermato nella
comunicazione di notizia di reato, e cioè che il Dott. Mortola avrebbe accertato che “la
struttura era occupata da numerosi elementi appartenenti all’area dell’antagonismo più
estremo, riconducibili ai gruppi responsabili di alcune azioni violente realizzate nella
stessa giornata ed in quella precedente”. Neppure lo stesso imputato Mortola nel corso
delle sue dichiarazioni ha mai sostenuto di aver compiuto un accertamento del genere, né
ha indicato con quali modalità investigative sarebbe giunto ad apprendere che all’interno
delle scuole vi fossero soggetti ai quali potesse essere attribuita la responsabilità delle
violenze compiute in precedenza.
Non solo, ma a tutto concedere alle tesi difensive, ed in conformità persino con la
affermazione testé esaminata contenuta nella CNR, non era assolutamente ipotizzabile
neppure con infimo grado di probabilità che all’interno dei due edifici scolastici vi fossero
solo ed esclusivamente soggetti appartenenti all’area dell’antagonismo violento
responsabili dei saccheggi e delle devastazioni, e ciò con riferimento non solo alla scuola
Pascoli, sede delle associazioni di legali e medici, dei mezzi di informazione e delle altre
strutture organizzative del GSF, ma anche per la Pertini, che continuava ad essere
“internet point” e centro “dormitorio” per i manifestanti che provenivano da altre strutture.
In definitiva seppure in astratto il sospetto di presenza di armi non potesse escludersi in
modo assoluto (dal che, come si anticipava, la legittimità dell’iniziativa volta a verificare la
fondatezza del sospetto) in concreto non era eludibile da parte dei vertici della Polizia la
constatazione che non si potevano accumunare in via preventiva e presuntiva tutti i
presenti all’interno dei due edifici sotto la qualifica di “appartenenti all’area
dell’antagonismo più violento” e che pertanto il binomio perquisizione - arresti rendeva
assolutamente necessario organizzare dal punto di vista strategico e poi in concreto
eseguire l’operazione di perquisizione in modo coerente con tale premessa.
Come si vedrà analizzando le modalità di preparazione e soprattutto di esecuzione della
perquisizione tale coerenza è mancata, e l’analisi delle cause di tale incoerenza sarà
indispensabile per valutare tutte le imputazioni.
MODALITÀ DI PREPARAZIONE DELL’OPERAZIONE
Costituisce dato indiscusso nel processo, quasi un assioma, che l’operazione dovesse
svolgersi con una prima fase definita di “messa in sicurezza” e di una successiva fase
che costituiva l’operazione di polizia giudiziaria vera e propria, cioè la perquisizione alla
ricerca di armi.
Seppure possa intuirsi che in via ipotetica si dovesse provvedere a fronteggiare eventuali
situazioni di pericolo, tuttavia nessuno fra testi ed imputati è stato in grado di chiarire in
cosa sarebbe consistita in dettaglio tale operazione di “messa in sicurezza”, chi l’aveva
studiata, quali direttive erano state date agli operatori di polizia per svolgere tale incarico,
e soprattutto come si sarebbe dovuta svolgere tale operazione considerata la sua
strumentalità alla successiva perquisizione.
Deve infatti osservarsi che non poteva sfuggire alla competenza dei vertici apicali della
Polizia di Stato che eseguire una perquisizione in edifici scolastici, per di più
temporaneamente adibiti a dormitorio, è cosa ben diversa che perquisire una privata
dimora. Se nel caso di privata dimora è fisiologico attribuire le detenzione di eventuali cose
illegali al detentore della dimora (per il connaturale potere di controllo che esercita), e/o ai
soggetti ivi trovati presenti al momento della perquisizione (pur con le dovute cautele ben
note in tema di mera connivenza) in base a elementari nessi di collegamento fra spazio e
condotte tenute dai singoli, non altrettanto può dirsi nel caso di perquisizione di ampio
edificio pubblico temporaneamente adibito al soggiorno di moltissime persone prive di
legami reciproci fra loro e di legami giuridicamente significativi con l’ambiente spaziale che
li circonda.
Malgrado tale evidente constatazione avrebbe dovuto presidiare la scelta delle modalità
operative della perquisizione, non solo non risulta che il problema sia stato posto ed in
qualche modo affrontato, ma è provato in positivo che le modalità di esecuzione avevano
tutt’altra finalità che quella di garantire il buon esito della perquisizione. Ci si riferisce
all’episodio, ancora nel processo orgogliosamente rivendicato dall’imputato Canterini
quale metodo che avrebbe evitato di ferire i presenti, secondo il quale nella seconda
riunione operativa tenutasi in Questura il predetto Canterini, incaricato con i suoi uomini
della “messa in sicurezza”, aveva proposto di intervenire immediatamente con i gas
lacrimogeni per far uscire tutti dall’edificio e poi procedere con la perquisizione; la proposta
di Canterini è stata respinta perché giudicata troppo aggressiva, e non, come avrebbe
dovuto essere in vai prioritaria, perché in tal modo, usciti tutti i presenti dall’edificio, la
perquisizione sarebbe stata inutile non potendosi attribuire ai singoli presenti la detenzione
di eventuali armi non portate addosso. L’episodio prelude significativamente a quanto in
effetti sarebbe successo, e cioè all’arresto indiscriminato di tutti i presenti con attribuzione
indistinta a tutti della detenzione illecita di armi trovate all’interno dell’edificio. Le intenzioni
degli organizzatori della perquisizione tradiscono il sopravvento dell’esortazione ad
eseguire arresti sulla verifica del buon esito della perquisizione stessa.
Ulteriori elementi significativi sulla preparazione dell’operazione si rinvengono:
a) nell’elevato numero di operatori impiegati, che non è mai stato possibile appurare
con certezza, ma che secondo la difesa di Canterini ed altri si aggira intorno a 346
Poliziotti, oltre a 149 Carabinieri incaricati della cinturazione degli edifici; quella che
icasticamente lo stesso Canterini a definito “una macedonia di reparti mobili”, vedendo gli
uomini schierati davanti alla Questura prima della partenza per l’operazione. Tali operatori
erano equipaggiati in assetto antisommossa, con caschi, sfollagente, manganelli e foulard
che coprivano il viso;
b) nella manovra “a tenaglia” elaborata per avvicinarsi al plesso scolastico che, sito
lungo la Via Cesare Battisti che procede da sud a nord, sarebbe stato raggiunto dalle forze
di Polizia divise in due corpi, guidati dagli scout genovesi Mortola e Di Sarro, provenienti
dalle opposte direzioni mare e monti; con previsione della cinturazione degli edifici da
parte dei Carabinieri per evitare fughe.
c) nella mancata indicazione della modalità operativa alternativa al lancio dei
lacrimogeni proposto da Canterini;
d) nell’omessa indicazione di quali fossero le “regole d’ingaggio” impartite agli
operatori.
Complessivamente tutte caratteristiche che denotano l’assetto militare dato all’operazione
e la incongruenza fra le modalità organizzative dell’operazione e le ipotesi legittimamente
formulabili in riferimento ad una perquisizione ex art. 41 TULPS, confinate alla possibile
presenza di qualche soggetto violento all’interno delle scuole e, quindi, forse anche di
qualche arma.
LE MODALITÀ DI ESECUZIONE DELL’OPERAZIONE
Difficilmente in un processo è dato riscontrare un complesso di elementi probatori orali
(deposizioni testimoniali) e documentali (riprese audio e video, tabulati telefonici,
registrazioni di telefonate) tanto nutrito come quello che in questo processo documenta la
fase di esecuzione dell’operazione di perquisizione nelle scuole Pertini e Pascoli. E ciò è
tanto vero che tranne un solo difensore (per il quale tutto è stato legittimo, in quanto le
persone all’interno degli edifici erano pericolosi e pluripregiudicati attivisti violenti che
hanno compiuto gravi atti di resistenza sì da costringere gli operatori di Polizia a reagire
energicamente), nessuno degli imputati pone in dubbio che l’esito dell’operazione sia stato
l’indiscriminato e assolutamente ingiustificabile pestaggio di quasi tutti gli occupanti, come
del resto ritenuto dal Tribunale. Ne è ulteriore conferma la constatazione che le difese non
si incentrano sulla negazione dell’accadimento dei fatti di lesione, ma sull’attribuzione ad
altri della responsabilità di tale illecita condotta.
Come anticipato, i numerosissimi operatori si divisero in due colonne che giunsero
separatamente in Via Battisti avanti le due scuole: una guidata dall’imputato Mortola
proveniente da nord giunse per prima, l’altra, guidata dall’imputato Di Sarro giunse un po’
dopo da sud (per carenza di comunicazione fra le due guide dovuto a difetto di un telefono
cellulare).
Immediatamente giunta da nord la prima colonna si verificarono le prime aggressioni verso
cinque persone inermi che erano fuori della scuola (fatti oggettivamente certi in causa);
a seguito della chiusura del cancello del cortile della scuola Pertini e del portone di
ingresso, venne decisa l’irruzione, con lo sfondamento del cancello mediante un veicolo di
servizio, l’accesso al cortile, lo sfondamento del portone principale e poi di quello laterale,
e l’ingresso degli operatori nell’edificio (fatti oggettivamente certi in causa);
seguirono le violenze agli occupanti dell’edificio ed il successivo trasporto dei feriti agli
ospedali (fatti oggettivamente certi in causa).
I fatti accaduti all’esterno, ed alcuni di quelli accaduti all’interno e visibili attraverso le
finestre illuminate della scuola, sono documentati da numerose riprese video eseguite da
cittadini abitanti nei pressi e da manifestanti che si trovavano di fronte nella scuola Pascoli,
oltre che, successivamente, da operatori di network televisivi. Tali riprese audio-video,
effettuate da angolazioni diverse ed in tempi diversi, sono state oggetto di consulenza da
parte del P.M., delle parti civili e degli imputati, al fine di essere coordinate nel tempo fra
loro e con le registrazioni audio, nonché al fine di ottenere la sicura successione
cronologica dei fatti e l’ora di rispettivo accadimento.
La Corte condivide la scelta del primo giudice di ritenere del tutto attendibile la consulenza
espletata per conto delle parti civili (i cui esiti sono sostanzialmente sovrapponibili a quella
fatta eseguire dal P.M. ai Carabinieri del RIS). Contrariamente a quanto sostenuto dalla
difesa di un gruppo di imputati la consulenza in questione non si fonda sull’esame dell’ora
segnata da un orologio portato da una persona ripresa in un filmato; viceversa, essendo a
disposizione del consulente le tracce video e i tabulati delle chiamate telefoniche, il
coordinamento fra le immagini e le telefonate al fine di giungere alla collocazione esatta
nel tempo dei fatti ripresi nei filmati è avvenuto correlando l’immagine dell’imputato Luperi
che risponde alla chiamata telefonica proveniente da La Barbera, mentre altro soggetto
contestualmente ripreso, identificato nell’agente Alagna, era al telefono, con i tabulati dei
due soggetti contemporaneamente al telefono (Luperi ed Alagna); l’unica telefonata alla
quale risponde Luperi quando è in corso quella di Alagna è quella iniziata alle ore
00.41.33. In tal modo, avuta la certa collocazione nel tempo di tale episodio, è stato
possibile dapprima raggruppare i video dello stesso evento ripresi da punti diversi
confrontando la posizione di soggetti noti rispetto ad oggetti fermi presenti nei video stessi,
e poi, a partire dal video della telefonata di cui sopra, è stato possibile stabilire la
successione cronologia di tutti i filmati mediante l’individuazione di eventi visivamente
apprezzabili (come il lampo di un flash) presenti in più riprese.
Sulla base di tale elaborato il Tribunale ha ritenuto che l’arrivo delle forze di Polizia in
Piazza Merani sia avvenuto alle ore 23.57.00 (orario desumibile anche dalla trasmissione
in diretta di radio GAP, perché è in quel momento che il programma in corso viene
bruscamente interrotto per dare notizia del’arrivo della Polizia in assetto
antisommossa),che l’ingresso dei reparti di Polizia operanti all’interno del cortile della
scuola sia avvenuto alle 23.59.17 (visibile lo sfondamento del cancello del cortile mediante
il mezzo del Reparto Mobile di Roma nel rep. 175), e che l’apertura del portone centrale in
legno sia avvenuta alle ore 00.00.15 (visibile dai rep. filmati n. 175 e n. 239), meno di un
minuto dopo l’ingresso nel cortile.
Il Tribunale ha ampiamente argomentato il motivo per cui la diversa prospettazione
cronologica offerta dalla difesa (Avv. Corini) non sia attendibile, e sul punto le critiche
mosse con la memoria illustrativa depositata in questo grado sono generiche, in quanto si
limitano a riproporre le tesi del primo grado. In particolare la difesa non prende posizione
sulla convincente argomentazione sostenuta dal Tribunale secondo la quale le telefonate
effettuate dall’assistente Burgio quali emergenti dai tabulati in atti sono molteplici nell’arco
della stessa fase temporale, e la difesa non ha fornito giustificazione logica e verificabile
del motivo per cui la telefonata riferibile al video preso in considerazione sarebbe proprio
quella scelta a confutazione delle risultanze delle CT del P.M. e delle parti civili.
Ma, soprattutto, osserva la Corte che la tesi della difesa è destituita di fondamento perché
la telefonata che si assume fatta dal Burgio al Troiani alle ore 00.34 del 22 luglio non ha
riscontro alcuno nei tabulati relativi alle due utenze cellulari in uso al Troiani; non esiste
quindi, come invece avviene con le consulenze del P.M. e delle parti civili, il riscontro del
tabulato di altra utenza che consenta di identificare con certezza la telefonata ripresa nel
video e, quindi, di attribuirle l’ora esatta di effettuazione che deve risultare dai due tabulati.
Ciò premesso in ordine alla cronologia dei fatti, occorre esaminare i primi episodi di
violenza verificatisi sulla pubblica via ancora prima dell’ingresso della Polizia nel cortile
della scuola Pertini.
Il Tribunale ha descritto la gravissima aggressione subita dal giornalista inglese Mark
Covell riportando la sua deposizione, ed al riguardo non vi sono temi in contestazione
circa le modalità della violenza: il teste, che si trovava all’interno della scuola Pertini, verso
le 23,45 sentì un italiano, entrato di corsa, dire qualcosa con riferimento ad una retata.
Con un giornalista tedesco, di nome Sebastian, Covell cercò di rientrare nella Pascoli e
così uscì di corsa dalla Pertini; i due si fecero aprire il cancello del cortile, che in quel
momento era chiuso, e uscirono sulla strada; egli sentì un forte rumore provenire dalla sua
destra ma pensò di riuscire a completare l’attraversamento; l’amico Sebastian vi riuscì, ma
dalla destra sopraggiunse un gran numero di poliziotti; la prima fila colpì il teste con i
manganelli; egli riuscì a restare in piedi e ad arrivare a metà della strada prima di essere
colpito nuovamente. Vi era anche oltre alla prima fila di poliziotti una persona che dava
ordini; poi tutto avvenne velocemente: venne circondato; egli urlava “stampa”, ma un
poliziotto, agitando il manganello, disse in inglese “tu non sei un giornalista, ma un black
bloc e noi ammazzeremo i black bloc”. Covell venne colpito ripetutamente da quattro
poliziotti con gli scudi, spinto indietro verso il muro di cinta della Pertini. Egli cercò di
correre verso il lato sud della strada ma non c’era modo di fuggire. Venne colpito con i
manganelli sulle ginocchia e cadde a terra; iniziò a temere per la propria vita. Un poliziotto
lo colpì alla spina dorsale e gli diede alcuni calci; quindi altri poliziotti si unirono a picchiare
provocando la frattura di otto costole e della mano. Venne poi preso da dietro e riportato
dove si trova all’inizio da un poliziotto, che controllò le pulsazioni al polso e cercò quindi di
evitare che venisse ancora colpito; in tale frangente il teste riuscì ancora a vedere un
camioncino della Polizia che sfondava con due manovre il cancello della Pertini; un
poliziotto arrivò da sud e colpì nuovamente il teste, questa volta in faccia, sì che Covell
perse diversi denti; dopo un ulteriore colpo sulla testa svenne.
L’attribuzione della responsabilità di tale gravissimo episodio di violenza è rilevante ai fini
di qualificare l’operazione di perquisizione e di valutare la condotta dei partecipanti.
La tesi delle difese degli imputati è che, come aveva riferito in un primo tempo lo stesso
Covell, l’episodio sia da attribuirsi a condotta dei Carabinieri, chiamati a partecipare
all’operazione per eseguire la cinturazione dei luoghi. Il Tribunale, dal canto, suo ha
concluso che non è risultato quali forze dell’ordine abbiano agito e chi ne fosse al
comando.
Il teste Covell ha fornito una convincente spiegazione del motivo per cui nelle sue prime
dichiarazioni ha fatto riferimento ai “carabinieri” e poi al dibattimento abbia chiarito trattarsi
invece di poliziotti; egli, come tutti gli stranieri, non era a conoscenza della distinzione
tipica del nostro paese fra Carabinieri e Polizia e solo il suo difensore lo ha informato al
riguardo. Così, rivisti i filmati e le diverse divise, ha potuto in dibattimento precisare il suo
ricordo, oltretutto molto onestamente riferendo di aver comunque visto divise con la scritta
“carabinieri”. E la circostanza risponde a verità (integrando ulteriore elemento di conferma
della attendibilità del teste), posto che è pacifico che quando era tramortito a terra per i
numerosi colpi ricevuti, e prima di svenire, venne avvicinato da un Carabiniere, il tenente
Cremonini Luigi, comandante del 4° Battaglione C.C. Veneto, che constatatene le gravi
condizioni ne riferì all’imputato presente Gratteri, il quale lo esortò a tornare ai suoi compiti
perché l’ambulanza era già stata chiamata.
In secondo luogo non risponde al vero che contestualmente all’arrivo della prima colonna
di poliziotti in Via Battisti ci fosse anche un contingente di Carabinieri.
Il sottotenente Del Gais ha riferito che, incaricato della cinturazione, giunse avanti il cortile
della Pertini dopo la Polizia, tanto che appena arrivato comunicò ad un funzionario della
Polizia il motivo per cui egli e i suoi uomini erano lì, e cioè provvedere alla cinturazione;
egli con il suo reparto si posizionò alla destra guardando il cancello di accesso al cortile
della Pertini.
Il tenente Cremonini ha precisato che i comandanti CC convocati in Questura erano stati
lui e Del Gais; che dovevano seguire l’ultima colonna della Polizia; che per mancanza di
spazio lasciarono i loro veicoli lontano dall’ingresso; che procedette a piedi di corsa per
arrivare prima possibile seguendo il funzionario di polizia che indicava la strada; che
giunse davanti alla scuola quando il cancello del cortile era già stato sfondato; che vide la
persona a terra ferita e ne parlò con Gratteri; che l’altro contingente “Campania” arrivò
ancora dopo.
Dalla descrizione dell’aggressione subita emerge che Covell mentre attraversava la strada
dalla scuola Pertini verso la scuola Pascoli, quindi da est verso ovest, venne aggredito
dapprima da operatori provenienti dalla sua destra, quindi da nord, e da ultimo da soggetto
proveniente da sud. Da nord proveniva il primo dei due gruppi di poliziotti guidati
dall’imputato Mortola. Tale imputato non ha riferito di essere stato sopravanzato dai
Carabinieri mentre con passo spedito si dirigeva verso la scuola Pertini; l’imputato Ferri,
che era con i suoi uomini nelle prime file del gruppo proveniente da nord, ha riferito che
davanti a sé c’erano gli uomini del Reparto Mobile che andavano di corsa e così si
avvicinarono all’edificio.
Nel filmato che riprende l’arrivo delle forze di Polizia in piazza Merani e poi in via Battisti
all’ora in cui è avvenuta l’aggressione a Covell non si coglie la presenza di alcun
Carabiniere.
Consegue con ampio margine di certezza che i Carabinieri giunsero da sud e, comunque,
quando ormai l’aggressione a Covell era già stata compiuta; gli autori di tale vile massacro
non possono che essere stati appartenenti alla Polizia di Stato.
Nessun dubbio, poi, può sussistere sulla paternità delle altre condotte aggressive tenute
fuori delle scuole prima dell’ingresso nel cortile della Pertini, così ricostruite: Scribani
Giuseppe, Tizzetti Paolo e Nanni Matteo, ciascuno in situazioni di ingiustificata coazione
fisica in relazione alle circostanze documentate dagli stessi filmati: Scribani viene condotto
con un braccio serrato al collo e mantenendogli il braccio dietro la schiena lungo Via
Battisti sino in P.zza Merani, mentre Nanni e Tizzetti sono ammanettati e fatti
inginocchiare, insieme ad altri, in una via laterale, quindi sdraiati per terra all’angolo con
Via Battisti (su tale circostanza e sulle modalità di tali vessazioni ha deposto anche il
testimone Tognazzi Riccardo all’udienza dell’8.3.07). Tutti costoro hanno senza ombra di
dubbio indicato in appartenenti alla polizia gli autori delle condotte ai loro danni.
Il teste Frieri ha così descritto la propria aggressione: “Arrivarono quattro poliziotti con
jeans e pettorina con la scritta “Polizia”. Io dissi subito “Stampa, stampa”. I poliziotti si
volsero vero il loro dirigente, chiedendo che cosa dovessero fare e alla risposta di
proseguire, iniziarono a colpirci con i manganelli dalla parte del manico finché non caddi a
terra. Il pass mi venne strappato e non fu più ritrovato; mi vennero poi chiesti i documenti
ed io diedi la mia tessera di consigliere comunale. Il poliziotto rimase stupito e mi disse:
“Che cazzo ci fa lei qui?”. In precedenza mi avevano detto: “Che cazzo scrivete voi
bastardi?”. Arrivò poi un dirigente, presumo lo stesso di cui ho detto prima che aveva
autorizzato i poliziotti a proseguire, che mi disse che si erano sbagliati. I poliziotti
venivano dall’alto (da piazza Merani)”.
Le riprese video documentano lo sfondamento del cancello, l’accesso al cortile, lo
sfondamento del portone principale e poi di quello laterale, quindi l’ingresso degli operatori
nella scuola Pertini.
L’esito dell’irruzione è indiscusso in causa:
tutti i presenti all’interno (e all’esterno) della scuola (93 soggetti) sono stati arrestati con le
accuse di associazione a delinquere finalizzata alla devastazione ed al saccheggio,
resistenza aggravata a pubblico ufficiale, possesso di congegni esplosivi ed armi
improprie;
87 di questi hanno riportato lesioni (lesioni craniche lacero contuse, verranno obbiettivate
nei referti di Albrecht Daniel Thomas, Sibler Steffen, Kutschau Anna Julia, Barringhaus
Georg, Chimiliewski Michail, Giovanetti Ivan, Hermann Jochen, Kress Holger, Reichel
Ulrich, Schleiting Mirko, Schmiederer Simon, Zehatschek Sebastian);
due, Melanie Jonasch e Mark Covell, hanno corso pericolo di vita;
la situazione era talmente grave che lo stesso imputato Fournier quando al dibattimento si
è deciso ad ammettere la reale entità dei fatti, per descriverli ha usato l’espressione
“macelleria messicana”.
Le modalità con le quali sono state perpetrate le violenze sono state descritte da tutte le
parti offese e sono ampiamente desumibili dalle deposizioni riportate per esteso nella
sentenza di primo grado: non appena entrati nell’edificio, tutti gli operatori di polizia si sono
scagliati sui presenti, sia che dormissero, sia che stessero fermi con le mani alzate, e
senza sentire ragione alcuna (né per l’età avanzata, né per l’atteggiamento remissivo, né
per la rivendicazione della qualifica di giornalisti) hanno colpito tutti con i manganelli, con i
c.d. “tonfa”, con pugni e calci; il tutto urlando insulti e minacciando di morte. Qualcuno
anche mimando atti sessuali all’indirizzo di una giovane ferita ed inerme a terra (esame
dibattimentale di Fournier).
Si presenta particolarmente significativa la deposizione di Albrecht Daniel Thomas, il quale
ha riferito: “mi svegliò un mio amico, dicendomi che c'era la Polizia. Mi alzai e dalla
finestra vidi che tutta la strada era occupata da macchine della polizia. Mi rivestii e con i
miei amici ci dirigemmo nel corridoio, dove si trovavano anche altre persone, circa una
ventina; avevamo molta paura; si sentivano urla e forti rumori. Una signora che non
conoscevo disse "restiamo fermi con le mani alzate" e così facemmo, ponendoci in fila
lungo le pareti del corridoio. I poliziotti arrivarono, salendo le scale con passo accelerato;
nessuno di noi scappò e non c'era "casino". Urlavano qualcosa e ci facevano segno di
sederci. Vennero poi nella mia direzione e ponendosi davanti ai singoli, li
picchiavano con forza e senza alcuna fretta. Io stesso fui colpito sulla testa ed anche
sulle braccia perché cercavo di proteggermi. I poliziotti avevano guanti imbottiti e
colpivano anche con pugni e calci. Andavano avanti ed indietro, colpendo tutti. Urlavano
"bastardi" ed altri insulti che io non comprendevo. Io era sdraiato in terra, vicino a me vi
era una pozza di sangue che io perdevo dal braccio, dalla bocca e dalla testa” Da tale
narrazione si evince senza ombra di dubbio che non si è trattato solo di un manifestazione
eclatante di violenza esplosa irrazionalmente quasi espressione animalesca di bassi istinti
repressi che trovavano finalmente sfogo; al contrario, si è trattato di fredda a calcolata
condotta, cinicamente perpetrata con metodo sadico.
La paura ed il panico creato fra gli astanti sono stati così elevati che alcuni hanno perso il
controllo degli sfinteri, come confermato dal sopralluogo effettuato il giorno successivo dai
Carabinieri, che hanno attestato la presenza di materiale fecale in terra.
La condotta violenta è stata così poco improvvisata che, a conferma di quanto riferito da
alcuni testi circa la presenza di mazze da baseball utilizzate dai poliziotti, nel filmato Rep.
24. P2 al minuto 04,00 si può notare un agente in divisa della polizia che ripone nel vano
portabagagli di una vettura non d’istituto una mazza o un bastone, aggiungendola ad altre
già presenti nel vano: le modalità dell’azione e l’uso di vettura privata escludono che si
trattasse di dotazioni ufficiali in uso alla Polizia o di reperti sequestrati, perché in nessuno
dei due casi sarebbero stati riposti con aria clandestina su vettura privata.
L’attendibilità delle dichiarazioni rese dalle parti offese è riconosciuta dal Tribunale sulla
base di numerosi presupposti; la concordanza fra i contenuti sostanziali di tutte le
dichiarazioni, la mancanza di possibilità di preventivo accordo, trattandosi di soggetti delle
più disparate nazionalità espulsi dal territorio dello Stato nell’immediatezza dei fatti (e al
riguardo la possibilità di scambio di notizie su internet non costituisce certo prova di
preordinazione nel contenuto delle dichiarazioni), le conferme oggettive date dai riscontri
documentali (riprese audio video, situazione dei luoghi dopo gli eventi, rappresentata dalle
numerose fotografie scattate dai Carabinieri, nelle quali si evidenzia drammaticamente la
presenza di sangue fresco praticamente in ogni locale della scuola, a confutazione della
vergognosa tesi che le ferite sarebbero state riportate nei giorni precedenti).
Tuttavia il Tribunale non manca di manifestare qualche dubbio, ingeneroso quanto
infondato, sul tenore complessivo delle dichiarazioni rese dalle parti lese, e finisce con
l’affermare che, come sostenuto dagli operatori di polizia, qualche episodio di violenta
resistenza sarebbe stato compiuto ai danni degli operatori.
Tralasciando per il momento l’episodio dell’aggressione all’agente Nucera, del quale si
dirà ampiamente in seguito, non senza rilevare in questa sede che per il Tribunale è
impossibile accertare se si sia o non si sia verificato (per cui non si vede come possa
costituire conferma di resistenze compiute all’interno della scuola), osserva la Corte che le
parti lese sono del tutto attendibili anche quando hanno riferito di aver avuto tutte
atteggiamenti remissivi e passivi, essendosi addirittura fermate o sedute a braccia alzate,
alcune con i documenti in mano, invocando “non violenza”. Le deduzioni contenute nelle
relazioni di servizio stilate dagli operatori intervenuti sono assolutamente generiche, e
sono state predisposte, a richiesta dell’imputato Canterini, ad alcuni giorni di distanza dai
fatti, dopo che sui mezzi di informazione era scoppiata la polemica sull’esito
dell’operazione (interrogatori di Lucaroni e Compagnone, ed es.). Del resto lo stesso
Fournier ha riferito che le colluttazioni alle quali ha assistito erano “unilaterali”, ossimoro
efficace per descrivere aggressioni portate dai poliziotti ai danni di soggetti inermi.
In conclusione, anche prima della decisiva pronuncia della Corte di Cassazione a SSUU n.
12067 del 17/12/2009 che ha affermato il principio secondo il quale “Non sussiste
incompatibilità ad assumere l'ufficio di testimone per la persona già indagata in
procedimento connesso ai sensi dell'art. 12, comma primo lett. c), cod. proc. pen. o per
reato probatoriamente collegato, definito con provvedimento di archiviazione” il Tribunale
disponeva già di tutti gli elementi valutativi necessari e sufficienti per ritenere del tutto
attendibili le parti offese (nei confronti delle quali le false accuse erano già state archiviate)
anche in ordine alla assenza di alcuna violenza o resistenza da parte loro all’interno della
scuola.
Per quanto riguarda le fasi anteriori all’ingresso, nessuna resistenza è ravvisabile per il
lancio di oggetti o per la chiusura del cancello e dei portoni di legno di accesso all’istituto
scolastico, con l’ingenuo accatastamento di alcune panche.
Relativamente al lancio di oggetti, descritto nella CNR come “fitto lancio di pietre ed altri
oggetti contundenti”, nel verbale di arresto come “fittissimo lancio di oggetti di ogni genere”
e nella relazione di Canterini al Questore come pioggia di “oggetti contundenti ed in
particolar modo bottiglie di vetro” è significativo secondo la Corte che nel verbale di arresto
tale circostanza sia indicata come rafforzativa della convinzione che all’interno della scuola
giovani manifestanti detenessero armi. La assenza di nesso logico fra il lancio di oggetti e
la presenza di armi all’interno della scuola rende evidente l’intento di enfatizzare oltre
misura fatti che non avevano alcun nesso con la perquisizione ed il sospetto di presenza
di armi al fine di rendere in qualche modo giustificabile la decisione di fare irruzione con le
modalità sopra descritte.
In ogni caso le emergenze probatorie raccolte escludono che si sia trattato di condotta
particolarmente significativa e pericolosa, e che abbia avuto le caratteristiche con le quali
è stata descritta negli atti sopra menzionati. Basta rilevare che gran parte della scena dallo
sfondamento del cancello, al successivo ingresso nel cortile fino all’apertura del portone è
stata ripresa nel filmato in atti, e che lo stesso, pure oggetto di attenta consulenza da parte
dei RIS di Parma, non consente di apprezzare la caduta e tanto meno il lancio di oggetti
(per cui se caduta vi è stata si deve essere trattato di oggetti di dimensioni insignificanti),
come del resto confermato dal fatto che a terra nulla di tal genere è stato poi ritrovato, e
che gran parte degli operatori staziona nel cortile senza assumere alcun atteggiamento di
difesa o riparo da oggetti provenienti dall’alto (tra questi lo stesso Canterini che non
indossa il casco, comportamento che per la sua esperienza di comandante non può
essere dettato da leggerezza). Solo nella fase immediatamente precedente l’ingresso
nella scuola, dopo l’apertura del primo portone, alcuni operatori portano lo scudo sulla
testa, ma la condotta è ambigua, perché nello stesso frangente si vedono altri operatori
nelle vicinanze che non assumono alcun atteggiamento protettivo; inoltre è stata fornita
una spiegazione di tale condotta (teste Gabriele Ivo, operatore del Reparto Mobile di
Roma) ravvisata in una specifica tecnica operativa di approccio agli edifici, che contempla
tale manovra in via cautelativa sempre, anche in assenza di effettivo pericolo. Né a
diversa conclusione può condurre la deposizione dell’infermiere Galanti che con la propria
ambulanza giunse in loco e comunicando con la centrale del servizio “118” disse “stanno
buttando giù tutto”; secondo la ricostruzione cronologica dei reperti audio e video compiuta
dalle parti civili e fatta propria dallo stesso Tribunale, tale conversazione è collocabile alle
ore 00.04.00, mentre la fase di stazionamento degli operanti nel cortile fra lo sfondamento
del cancello e l’apertura del primo portone della scuola è collocabile fra le ore 23.59.09 e
le ore 00.00.17. Consegue che la telefonata in questione è intercorsa circa 4 minuti dopo
l’ingresso della Polizia nella scuola, come del resto confermato dallo stesso Galanti, il
quale ha riferito che all’interno della scuola c’era già la Polizia e numerosi feriti a tutti i
piani, verso i quali era stato richiesto di intervenire prontamente. Consegue che qualunque
cosa abbia voluto dire il Galanti con l’espressione “stanno buttando giù tutto” (e non “giù di
tutto” come qualche difesa ha riportato) la stessa sicuramente non si riferiva alla fase in
cui gli operanti erano nel cortile.
Sotto tale profilo, quindi, non si ravvisa alcuna resistenza, la quale, in ogni caso, non
avrebbe in alcun modo giustificato la successiva condotta di indiscriminato pestaggio di
tutti i presenti nella scuola per l’evidente venir meno di ogni eventuale effetto di ostacolo
all’espletamento di atti d’ufficio.
Quanto alla chiusura del cancello e dei portoni, deve preliminarmente ricordarsi che
l’edificio in questione, in quanto regolarmente assegnato dall’ente proprietario
all’associazione consegnataria e destinato al soggiorno e anche al ricovero notturno di
privati cittadini, era da considerarsi privata dimora, come tale legittimante interclusa
all’eventuale accesso pubblico mediante chiusura dei varchi di apertura.
Ciò premesso, occorre considerare che per configurarsi resistenza a pubblico ufficiale
occorre la consapevolezza in capo all’agente di opporsi al compimento di un atto
dell’ufficio. Nella fattispecie formalmente l’atto da compiere era una innocua perquisizione,
ma è pacifico che in nessun modo gli operatori di Polizia hanno portato a conoscenza
degli occupanti della scuola tale intenzione: non è avvenuto alcun tentativo di
parlamentare a mezzo altoparlante, come spesso succede in tali occasioni, per verificare
l’atteggiamento degli occupanti e saggiare la loro disponibilità a consentire l’accesso, una
volta avuta contezza delle motivazioni della presenza in loco della polizia. Al contrario
l’irruzione è stata ordinata alla mera constatazione che il cancello del cortile era chiuso,
presumendo che fosse l’unica modalità per accedere in loco; ma tale presunzione esclude
la sussistenza del dolo di resistenza non essendo in alcun modo intuibile da parte delle
persone all’interno che si intendeva eseguire un atto di polizia giudiziaria.
Ed infatti le modalità di approccio all’edificio, caratterizzate dalla imponente quantità di
operatori in assetto antisommossa, con manovra a tenaglia e cinturazione dell’edificio, con
le gravissime violenze perpetrate già in strada ai danni di Covell e Frieri, a nessuno
avrebbero consentito di ipotizzare che si preannunciava una pacifica operazione di mera
perquisizione.1
.-.-.-
VALUTAZIONI CONCLUSIVE
Passando, quindi, a valutare i tre aspetti sopra evidenziati della ideazione, della
preparazione e della esecuzione dell’operazione, possono trarsi le seguenti conclusioni.
L’ipotesi della presenza di armi all’interno della scuola Diaz - Pertini era scarsamente
probabile; ma non potendosi, ovviamente, escludere del tutto la mera possibilità, è stata
assunta a giustificazione della intrapresa perquisizione di iniziativa ex art. 41 TULPS al
fine di procedere agli arresti sollecitati dal capo della Polizia. Sotto questo profilo, come
già si è osservato, l’esperienza della scuola Paul Klee non è stata di ostacolo, con ciò
risultando evidente che la priorità seguita in quel momento era la tutela dell’immagine
compromessa della Polizia, tutela operabile con una speculare immagine di efficienza,
cioè la rappresentazione pubblica dell’arresto di numerose persone sospettate di essere
gli autori delle violenze dei giorni precedenti. In tale ottica il rischio che poi gli arrestati
venissero scarcerati non ha costituito remora trattandosi di evenienza che in secondo
tempo sarebbe stata riferibile alla attività giurisdizionale della magistratura, e non avrebbe
inficiato l’impatto mediatico iniziale dell’arresto; significativo in tal senso è l’argomento da
ultimo usato da Ferri per convincere Di Sarro, all’inizio perplesso e restio a sottoscrivere il
verbale di arresti parendogli “una forzatura” l’arresto in flagranza per associazione, e cioè
che “l’auorità giudiziaria sarebbe stata libera di qualificare diversamene i fatti”
(interrogatorio Di Sarro del 16/10/2002). E questo è il motivo per cui venne convocato
l’addetto stampa Sgalla ancora prima di sapere l’esito della operazione; tale fatto, lungi dal
provare la buona fede degli imputati, come sostenuto dal Tribunale, conferma la finalità
mediatica dell’operazione che si intendeva perseguire con determinazione, ancor prima di
1 Ciò è tanto vero, che basta ascoltare i commenti ad alta voce di alcuni privati cittadini mentre effettuavano le
riprese dell’arrivo della Polizia in Via Battisti: la prima considerazione è stata “la Polizia ha deciso di attaccare la
scuola”.
sapere quale ne sarebbe stato l’esito.
Pertanto può affermarsi con ragionevole certezza che lo scopo primario perseguito era
quello di compiere numerosi arresti, e la conferma è data dalle modalità di preparazione
dell’operazione e di sua esecuzione.
Si è visto che il dispiegamento di forze è stato notevole e che era stata prevista un prima
fase di “messa in sicurezza”, affidata a Canterini ed ai suoi uomini del VII nucleo, le cui
caratteristiche sono rimaste ignote. Non è dato sapere quali direttive operative siano state
date al personale, se non quella, del tutto gratuita ed ingiustificata, che all’interno della
scuola vi fossero i pericolosi Black Bloc responsabili delle violenze (di tale fuorviante
informazione sono stati destinatari persino i Carabinieri Cremonini e Del Gais, e vi è prova
della stessa nelle numerose circostanze descritte dagli aggrediti, Covell in testa, i quali
hanno riferito che gli aggressori urlavano insulti sostenendo che le vittime erano dei
violenti Black Bloc).
Tale carenza di informazioni agli operanti e, anzi, la fuorviante motivazione data agli stessi
non hanno giustificazione alcuna anche alla luce delle deduzioni difensive degli imputati;
come già visto in precedenza, se anche fosse vero tutto quanto dagli stessi affermato in
ordine all’origine della scelta di eseguire la perquisizione alla Diaz, nulla autorizzava a
pensare che all’interno della scuola ci fossero solo Black Bloc, per cui era ineludibile la
necessità di predisporre le dovute cautele e verifiche al fine di distinguere, una volta
all’interno, i pacifici cittadini dai violenti Black Bloc.
Viceversa è stato approntato un apparato “bellico” di notevoli dimensioni, attrezzato con
abbigliamento antisommossa, dai volti mascherati e armato di manganelli e di “tonfa” (vere
e proprie armi registrare, che se usate in modo improprio, cioè impugnate alla rovescia per
colpire con la parte a “T”, sono particolarmente micidiali) e, probabilmente, con qualche
ulteriore arma personale (mazze) surrettiziamente introdotta. A tale apparato “bellico” è
stata fornita la errata informazione che scopo della missione era arrestare i Black Bloc che
si trovavano all’interno delle scuole.
Il binomio “necessità di procedere ad arresti” e la “dotazione al personale di
strumentazione necessariamente finalizzata all’uso della forza” avrebbe reso necessario o
fornire agli operatori i criteri di intervento necessari al fine di evitare indiscriminate e
generalizzate attività repressive (come invece è poi accaduto) o un controllo costante e
penetrante da parte dei dirigenti dei vari reparti che impedisse l’uso distorto della forza.
Ma nulla di tutto ciò è stato predisposto, né nelle due riunioni preparatorie in Questura, né
sul campo durante l’azione.
Non può stupire, allora, che al primo contatto con soggetti presenti nei pressi delle due
scuole si siano immediatamente manifestate ad opera degli operatori di Polizia le prime
gravissime ed indiscriminate condotte violente, sadicamente ripetute fino alla perdita dei
sensi di Covell, nell’indifferenza generale di tutti i funzionari e dirigenti ivi presenti.
Non può stupire che, invece di parlamentare l’ingresso nella scuola, sia stata decisa
l’irruzione (condotta di per sé violenta) lasciando liberi gli “animali”, come qualificati dal La
Barbera i poliziotti alle sue dipendenze (interrogatorio del 19/06/02 pag. 105), e che quindi
si siano avuti i gravissimi episodi di lesioni all’interno della scuola.
Il Tribunale, per fornire una spiegazione a tale eclatante e generalizzata manifestazione
gratuita di violenza, sorda ad ogni evidenza della inoffensività delle vittime, ha elaborato la
teoria secondo la quale “l’inconsulta esplosione di violenza all’interno della Diaz abbia
avuto un’origine spontanea e si sia quindi propagata per un effetto attrattivo e per
suggestione, tanto da provocare, anche per il forte rancore sino allora represso, il libero
sfogo all’istinto”, propagazione resa possibile da una sorta di accordo preventivo di
impunità stipulato con i superiori gerarchici, che avrebbero tollerato qualsiasi condotta
illecita. E per argomentare tale teoria il Tribunale è giunto a sostenere che “la sistematicità
nelle violenze poste in essere dagli operatori potrebbe anche essere attribuita alla
sensazione riportata dalle vittime che, colpite più volte e con notevole forza, come risulta
dalle gravi ferite riportate da alcune di loro, potrebbero in effetti aver avuto la concreta e
certamente giustificata percezione di un’attività violenta sistematica, anche nel caso in cui
in realtà si fosse trattato invece di sequenze di colpi non programmate con precise finalità
e modalità.”
Trattasi di argomentazione che tenta di conciliare ciò che non è conciliabile: sistematicità
delle violenze come frutto di sensazione delle vittime.
Non si comprende, infatti, perché la valutazione oggettiva delle condotte tenute dagli
operatori, cioè le modalità con le quali sono state inferte le ferite, debba essere rimessa
alla valutazione soggettiva delle vittime.
Inoltre la tesi dell’insorgenza spontanea (ma il significato del termine “spontaneo” è
dubbio, posto che nessuno ha mai sostenuto che gli operatori siano stati indotti alla
condotta illecita su impulso esterno) contrasta con le immediate violenze perpetrate
all’esterno della scuola ai danni di Covell e di Frieri ancora prima di entrare nell’edificio;
contrasta con l’assunto di un preventivo accordo di impunità (la preordinazione seppure
implicita e tacita di un accordo confligge con l’origine spontanea ed improvvisa della
violenza); contrasta con le modalità della condotta quali descritte dal teste Albrecht Daniel
Thomas, caratterizzate da fredda e calcolata violenza, del tutto incompatibile con il “libero
sfogo all’istinto, determinando il superamento di ogni blocco psichico e morale nonché
dell’addestramento ricevuto” di cui parla il Tribunale.
In sostanza, secondo la Corte, non è possibile descrivere i fatti in esame come la somma
di singoli episodi delittuosi occasionalmente compiuti dagli operatori indipendentemente
l’uno dall’altro in preda allo sfogo di bassi istinti incontrollati; al contrario, trattasi di
condotta concorsuale dai singoli agenti tenuta nella consapevolezza che altrettanto
avrebbero fatto e stavano facendo i colleghi, coerente con le motivazioni ricevute dai
superiori gerarchici e con l’esplicito incarico di usare la forza per compiere lo sfondamento
e l’irruzione finalizzati all’arresto di pericolosi soggetti violenti, senza alcuna preventiva o
successiva forma di controllo sull’uso di tale forza.
La responsabilità di tale condotta e, quindi, delle lesioni inferte, è pertanto ravvisabile in
capo ai dirigenti che organizzarono l’operazione e che la condussero sul campo con le
modalità e le finalità sopra descritte; trattasi di responsabilità commissiva diretta per
condotta concorsuale con quella degli autori materiali delle lesioni, perché scatenare una
così rilevante massa di uomini armati incaricandola di sfondare gli accessi e fare irruzione
nella scuola con la motivazione che all’interno soggiornavano i pericolosi Black Bloc che i
giorni precedenti avevano messo a ferro e fuoco la città di Genova e si erano fatti beffe
della Polizia, senza fornire un chiaro e specifico incarico sulla c.d “messa in sicurezza” o
alcun limite finalizzato a distinguere le posizioni soggettive, significa avere la certa
consapevolezza che tale massa di agenti, come un sol uomo, avrebbe quanto meno
aggredito fisicamente ed indistintamente le persone che si trovavano all’interno, come in
effetti è accaduto senza alcun segnale di sorpresa o rammarico manifestato da alcuno dei
presenti di fronte all’evidenza del massacro.
In tal senso è significativa la presa di distanza dalla decisione di effettuare l’irruzione
manifestata dall’allora indagato La Barbera che a suo dire l’avrebbe sconsigliata
affermando “…partendo da questo nervosismo che io avevo notato, io avevo intuito,
avevo subodorato, certamente le cose non sarebbero andate bene, perché ognuno
conosce gli animali suoi dottore…”. Non si sa se apprezzare più il realismo o il cinismo di
tale dichiarazione.
La circostanza che precedenti imputazioni a titolo di lesioni nei confronti di vertici della
Polizia siano state archiviate non è influente in questo processo, nel quale il materiale
probatorio a disposizione è di gran lunga più completo e ricco di quanto fosse all’epoca
dell’archiviazione. Analogamente le motivazioni assunte in quella sede non sono vincolanti
nel presente giudizio, che può esser fondato su una ricostruzione dei fatti più analitica ed
appagante alla luce del numeroso materiale audio video e delle deposizioni in allora non
disponibili. In particolare la Corte non condivide l’assunto, fatto proprio anche dal
Tribunale, che l’operazione nel suo complesso possa essere suddivisa in due fasi
separate e indipendenti, l’ingresso e la ”messa in sicurezza” con le conseguenti lesioni, e
la successiva perquisizione ad opera degli ufficiali di P.G. che, non avendo assistito
direttamente alle lesioni, non si sarebbero resi conto di quanto era effettivamente
successo, ritenendo che i colleghi entrati per primi avessero dovuto fronteggiare una tale
resistenza da essere costretti ad infliggere le gravi lesioni ben note.
Seppure corrisponde a verità, come meglio si vedrà in seguito, che dopo l’ordine impartito
da Fournier ai suoi uomini del VII nucleo di lasciare la scuola, gran parte delle violenze
cessarono, tuttavia dall’esame delle numerose dichiarazioni delle parti lese, anche sul
punto concordanti ed attendibili, è emerso sia che alcuni funzionari in borghese con la
pettorina e la scritta “POLIZIA” erano presenti durante la immediata fase del pestaggio, sia
che ulteriori fatti di lesioni continuarono a verificarsi anche dopo l’ordine impartito da
Fournier di abbandonare la scuola.
Il tema ha centrale importanza con riguardo alle imputazioni di falso e calunnia, ed in tale
sede sarà affrontato, ma in tema di lesioni rileva perché la dicotomia fra le due fasi, e
quindi la presunta rilevanza dei tempi di ingresso nella scuola sono state utilizzate dalla
difesa degli imputati dei reati di lesioni appartenenti al VII Nucleo Antisommossa del I°
Reparto Mobile di Roma per contestare la propria responsabilità attribuendola ad operatori
di altri corpi che assumono essere entrati prima di loro nella scuola Diaz-Pertini.
Come si è visto analizzando i capi di imputazione, le lesioni nel presente processo sono
imputate a Canterini, Fournier e agli altri capi- reparto indicati nel capo H), quali
appartenenti al VII nucleo. Che tale corpo fosse stato incaricato della c.d. “messa in
sicurezza” e quindi dell’uso della forza è pacifico in causa, e neppure gli imputati lo
contestano; nella seconda riunione operativa tenutasi in Questura allorché si decise
l’intervento, Canterini ed i suoi uomini furono incaricati della “sicurezza”, tanto che
Canterini, come già visto, propose l’uso dei gas lacrimogeni per sfollare la scuola; il
Nucleo, per sua organizzazione operativa, doveva restare compatto nell’assolvimento del
compito ricevuto, tanto che la decisione di spezzarlo in due per procedere alla manovra a
tenaglia era stata criticata da Canterini, che venne tranquillizzato solo con la garanzia
della ricongiunzione in Via Cesare Battisti; il Nucleo era presente davanti al cancello prima
che fosse sfondato (interrogatorio di Canterini del 6 e 7 giugno 2007); il primo operatore
ad entrare nella scuola non appena sfondato il portone di legno è l’Ispettore Capo Panzieri
del VII nucleo, che si è riconosciuto nel video che lo riprende mentre scavalca le panche
ammassate dietro il portone ed entra nella scuola; la appartenenza al VII nucleo è
contraddistinta da particolare divisa ed abbigliamento (tuta ignifuga con protezioni,
cinturone in cordura di colore blu scuro e casco a protezione che si differenziava dagli altri
perché in Keplek e quindi si presentava opaco mentre gli altri erano lucidi; un manganello
tipo tonfa, dalla caratteristica forma a “T”, come descritto dal teste Gonan Giuseppe
all’udienza del 10/01/2007). Come si evince dal reperto video che riprende l’ingresso nel
cortile e poi nella scuola, dal momento in cui Panzieri per primo entra nell’edificio a
quando praticamente si conclude l’ingresso di tutti gli altri operatori che erano presenti nel
cortile trascorrono circa 70 secondi; fra tali operatori sono distinguibili gli appartenenti al
VII nucleo che indossano casco opaco e tengono il “tonfa”; Fournier ha riferito di essere
entrato tra i primi, (“entrai tra i primi, ma probabilmente non come dissi settimo od ottavo”,
“come comandante della forza ritenni opportuno entrare per vedere cosa succedeva” “Con
me entrò personale della mia squadra e altro personale” interrogatorio del 13/06/2007).
In tale quadro, seppure è pacifico che insieme al VII nucleo entrarono anche altri reparti,
tuttavia considerato che in 70 secondi erano tutti dentro e che per accedere al piano terra
ed ai superiori tre piani della scuola e ferire quasi tutti i presenti occorre un tempo ben più
lungo (per le stesse difese almeno 5 minuti), consegue che la tesi secondo la quale il VII
Nucleo sarebbe stato scalzato da altri reparti, autori delle lesioni, giungendo in loco
quando ormai tutto era concluso, non ha alcun fondamento. A tale oggettiva ricostruzione
dei fatti debbono aggiungersi le dichiarazioni delle parti offese che hanno riconosciuto
indossata dagli aggressori la tipica uniforme degli appartenenti al VII nucleo, caratterizzata
dal cinturone scuro, ben distinguibile da quello bianco indossato da altri reparti.
Ma la partecipazione a pieno titolo del VII Nucleo alla iniziale fase di irruzione e
contestuale aggressione fisica nei confronti dei presenti è desumibile da altre significative
circostanze. È pacifico in causa che il VII nucleo era dotato di uno speciale sistema di
comunicazione, il laringofono, con il quale il comandante Fournier era sempre in diretto
contatto audio con i propri uomini, ai quali poteva impartire ordini in tempo reale durante lo
svolgimento dell’operazione; allorché Fournier si avvide del corpo esanime della Melanie
Jonasch e temette addirittura che fosse morta, urlò agli aggressori “Basta, basta”, quindi
intimò immediatamente ai propri uomini con il laringofono di abbandonare la scuola;
radunatosi il VII nucleo nel cortile, le violenze vennero scemando, anche se qualche
episodio ulteriore continuò a verificarsi.
Su tale condotta possono svolgersi diverse considerazioni:
innanzi tutto appare assai poco probabile che Fournier, nella fase di ingresso nella scuola,
non abbia impartito ai suoi uomini (che dovevano agire compatti) ordini ben precisi, ordini
che Fournier avrebbe dovuto ritenere necessari in assenza di superiori disposizioni, a
detta di tutti non impartite per essersi interrotta la catena di comando: ed il silenzio sul
punto da parte di Fournier non può dirsi senza significato;
in secondo luogo l’espressione “Basta basta” usata da Fournier non pare casuale e senza
significato: se l’aggressione fisica degli astanti non fosse stata prevista, la reazione
immediata avrebbe dovuto comportare un ordine di tipo diverso, quale ad es. “Fermi, cosa
fate!!”; viceversa l’uso della parola “basta” è sintomatica del superamento di un limite
precedente e l’ordine di interrompere una condotta fino a poco prima quanto meno
preventivata; è all’eccesso, con il rischio di conseguenze certamente non volute, che si è
opposto Fournier quando ha visto le disperate condizioni della Melanie Jonasch ed ha
ordinato “basta”;
in terzo luogo è particolarmente significativo che di fronte alla incontestabile evidenza di
una intollerabile degenerazione, la prima reazione di Fournier è stata quella di far uscire i
suoi uomini: ma se costoro, come più volte vantato nel processo, erano quegli operatori
così addestrati e scelti anche dal punto di vista psicologico per la loro integrità e capacità
di mantenere il controllo, e, come sostenuto da Fournier, non erano gli autori delle lesioni
già inferte, per quale motivo Fournier li ha fatti uscire dalla scuola, invece che esortarli ad
intervenire per impedire ulteriori violenze da parte di altri operatori di altri reparti? È
pensabile che la prima reazione sia stata solo quella di una fuga dalla scena per salvare
l’onorabilità del proprio reparto a scapito dell’integrità fisica delle persone che si trovavano
nella scuola?. In realtà, come lo stesso Fournier non ha potuto escludere, i suoi uomini
sono stati sicuramente responsabili delle lesioni inferte, e non a caso dopo l’ordine di
uscire dato da Fournier ai suoi uomini, come concordemente riferito da tutti i presenti,
l’ondata più feroce di aggressione fisica andò immediatamente scemando, anche se non
terminò del tutto, con ciò risultando confermato che gli autori principali delle lesioni erano
stati gli appartenenti al VII nucleo. Del resto, ipotizzando l’alternativa della mera tutela
dell’onore del corpo, scappare e consentire agli altri di continuare a picchiare gli astanti
sarebbe stato da parte dei responsabili della forza e della “messa in sicurezza” (in questa
veste identificati da tutti gli operatori presenti) un esplicito lasciapassare e come tale un
vero e proprio concorso morale nelle condotte illecite altrui.
Ulteriore e decisivo elemento di prova della responsabilità primaria del comandante e dei
capi squadra del VII nucleo è ravvisabile nella circostanza, riferita da Canterini nell’esame
dibattimentale del 07/6/2006, che immediatamente dopo essere ritornati nel cortile della
Pertini, Fournier disse a Canterini “guardi che io con questa gente qui non ci voglio più
lavorare”, espressione che a seguito di contestazione da parte del P.M. si apprende
essere stata nel precedente verbale del settembre 2001 “io con questi macellai non ci
voglio lavorare”. Sempre Canterini ammette che tale espressione si riferiva all’eccesso
della forza fisica da parte dei capisquadra, come è logico che fosse, posto che Fournier
non poteva riferirsi che al personale del VII nucleo, non certo a quello dei più disparati
reparti provenienti da tutta Italia con i quali non aveva motivo di ipotizzare nuove
collaborazioni.
Il quadro complessivo è coerente e non lascia margine a dubbi. Le maggior parte delle
gravi lesioni è stata inferta dal VII nucleo, o dai capi reparto direttamente, o dagli uomini
alle loro dipendenze; le condotte lesive sono state il frutto dell’incarico ricevuto (irruzione
per procedere agli arresti dei “Black Bloc”), incarico eseguito in modo omogeneo e
simultaneo da tutti i capi squadra e dai singoli operatori quale unitaria operazione sì da
essere tutti consapevoli delle reciproche condotte finalizzate al medesimo risultato.
Consegue il pieno concorso fra tutti i capi squadra (anche di Basile che formalmente non
aveva squadra alle proprie dipendenze ma che ha operato allo stesso modo degli altri e
con gli stessi effetti sulla condotta di tutti gli appartenenti al VII nucleo), nonché fra gli
stessi ed i rispettivi sottoposti per la evidente relazione di dipendenza gerarchica che
legava la condotta dei capi a quella dei subordinati, tenuti ad agire compattamente e di
fatto lasciati liberi di agire senza incontrare divieti o limiti da parte dei capi squadra; ma
sussiste anche il concorso fra i capi squadra del VII nucleo e gli autori delle residue lesioni
appartenenti a diversi corpi, per la evidente azione di rafforzamento ed istigazione che la
condotta del VII nucleo, incaricato della “messa in sicurezza”, ha esercitato sugli altri
operatori violenti, che hanno tratto dalla situazione così creata conforto e solidarietà nel
loro intento di rivalsa violenta, magari atteso (e sperato come attesta l’uso di qualche arma
privata introdotta surrettiziamente).
La responsabilità di Fournier deriva in primis dalla sua qualifica di Comandante del VII
Nucleo, e quindi si soggetto che aveva il potere-dovere di dirigere la condotta dei capi
squadra e, a scendere nella scala gerarchica, dei singoli operatori. La mancata
indicazione degli ordini impartiti ai capi squadra è forte indice della consapevolezza che
l’uso della forza era connaturato all’operazione di irruzione ed arresto; la mancata
predisposizione di alcuno strumento di controllo sul campo, e la mancata indicazione delle
modalità di esercizio della forza, al fine di evitare gli eccessi che si sono verificati, si sono
tradotti in una sorta di “carta bianca” data ai capi squadra. L’ordine impartito ai suoi di
abbandonare la scuola lascia inspiegato come Fournier potesse ritenere in tal modo di
aver adempiuto all’incarico di “mettere in sicurezza” l’edificio, se non attribuendo a tale
espressione il significato di neutralizzare tutti coloro che si trovavano all’interno, finalità
che presupponeva l’uso indiscriminato della forza senza distinguo alcuno. È ben vero che
Fournier è intervenuto a fermare gli aggressori della Melanie Jonasch e ha fatto uscire i
suoi interrompendo l’ulteriore corso delle violenze, ma tale intervento è avvenuto solo
dopo la commissione delle violenze e per l’evidente travalicamento di ogni limite verso il
quale la violenza si stava indirizzando.
Ed infatti la giurisprudenza ha avuto modo di affermare che allontanarsi dal luogo ove i
sottoposti commettono reati non esonera il funzionario preposto da responsabilità ex art.
40 2° comma c.p. (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 5139 Ud. del 05/04/1995 “In virtù del
principio sancito dall'art. 40, capoverso cod. pen. può essere chiamato a rispondere di
omicidio preterintenzionale il funzionario di polizia che sia assente dal luogo ove il fatto si
è verificato, violando l'obbligo di impedire che la condotta degli agenti sottoposti
trasmodasse in ulteriori e gravi violenze nei confronti dell'indagato”).
Quanto alla responsabilità di Canterini valgono in gran parte le considerazioni sopra
esposte per Fournier. Quale Comandante del I° Reparto Mobile di Roma in seno al quale
era stato costituito il VII Nucleo Antisommossa, Canterini era il diretto superiore gerarchico
di Fournier e di tutti gli altri uomini del reparto; scartata la tecnica delle bombe
lacrimogene, anche per Canterini, che ha partecipato alla seconda riunione in Questura
ove è stata programmata l’operazione, vale la considerazione di non aver esplicitato in
qual modo intendesse effettuare la “messa in sicurezza”, per cui rimane l’evidenza
oggettiva di aver impiegato il VII nucleo per l’irruzione finalizzata agli arresti senza
minimamente programmare alcuna attività strategica, e quindi lasciando liberi gli operatori
di usare la forza in massima libertà, malgrado egli fosse presente sul campo e potesse –
dovesse provvedere in tal senso avendo continua percezione in tempo reale di quanto
stava accadendo; egli è entrato nella scuola ed ha raggiunto Fournier al primo piano ove si
è trattenuto fino all’arrivo dell’ambulanza, per cui è transitato per il piano terra vedendo in
fondo alla palestra numerosi feriti già radunati (fatto ammesso nell’esame dibattimentale),
e non solo non ha manifestato alcuna contrarietà o stupore, ma ha proseguito verso i piani
superiori senza intervenie in alcun modo per far cessare le violenze.
La responsabilità di tutti gli imputati di lesioni è accertata, quindi, a titolo di
compartecipazione attiva e, anche, per omissione di tempestivo intervento (come pure
sarebbe stato possibile, ad es. tramite il laringofono), quindi nel pieno rispetto delle ipotesi
formulate nel capo di imputazione, per cui non sussiste alcuna violazione del principio di
corrispondenza fra accusa e decisione. È sufficiente ricordare che in materia è risalente e
immutato l’orientamento della giurisprudenza secondo il quale “La condotta omissiva di
pubblici ufficiali - nella specie due agenti della Polizia di Stato - consistente nella mancata
opposizione alle azioni delittuose in atto e nella successiva omessa denuncia di fatti
penalmente perseguibili, è giuridicamente apprezzabile sotto il profilo concausale della
produzione degli eventi, e, come tale, equivale a concorso morale nel cagionarli, stante
l'imperatività dell'obbligo giuridico inadempiuto (art. 40, secondo comma, cod. pen.)”
(Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1506 Ud. del 06/12/1991). Né risponde al vero che nel
contesto del capo di imputazione la menzione della qualifica rivestita dagli imputati abbia
la funzione di limiatre la contestazione ai rapporti di ciascuno con i propri sottoposti
appartenenti alla squdra, perché tale lmitazione non è desumible neppure implicitamente;
la menzione della qualifica rivestita è funzionale solo a indicre a quale titolo gli imputati
erano presenti e ad evidenzire la competenza professione e la titolarità di funzione
direttiva idonee a consentire loro di valutare la condotta di tutti i presenti.
LA PRESUNTA AGGRESSIONE ALL’AGENTE NUCERA
Uno dei fatti più eclatanti riferiti nella CNR, nel verbale di arresto e, ovviamente, nelle
annotazioni di servizio redatte dal Nucera e dal Panzieri è costituito dal vero e proprio
tentato omicidio del quale il predetto Nucera sarebebe stato vittima, e che è stato addotto
come grave elemento di conferma dell’atteggiamento di violenta resistenza incontrato
dagli operatori all’ingresso nella scuola.
Ma a parte la elementare considerazione che se anche tale episodio si fosse
effettivamente verificato, per la sua unicità ed il confinamento in un ristrettissimo ambito
soggettivo e spaziale non avrebbe comunque giustificato l’aggressione a tutti gli altri
occupanti la scuola, la Corte rileva che, contrariamente a quanto sostenuto dal Tribunale,
l’episodio costituisce una delle più gravi e – ci si perdoni l’iperbole – sfrontate messe in
scena di questo processo.
Il Tribunale ha già riportato per esteso le diverse versioni del fatto fornite dal Nucera e dal
collega Panzieri che avrebbe assistito all’episodio.
È sufficiente in questa sede ripercorrere gli aspetti più salienti e significativi:
- nella annotazione di servizio redatta alle ore 03.00 del 22 luglio l’agente Nucera ha
riferito di essere salito con la propria squadra al primo piano, di aver percorso tutto il
corridoio e, giunto davanti all’ultima stanza a destra, di avervi fatto irruzione sfondando la
porta; entrato per primo, seguito dall’Ispettore Panzieri, veniva affrontato da un giovane
alto circa mt 1,70 che urlava frasi indistinte e che gli puntò alla gola un coltello impugnato
con la mano destra ed il braccio teso; esso Nucera utilizzando lo sfollagente colpiva al
torace il giovane riuscendo ad allontanarlo da sé; quest’ultimo, però, con mossa fulminea
colpiva il Nucera “vigorosamente al torace facendo al contempo un rapido salto
all’indietro”. Prosegue l’annotazione narrando che Panzieri e altri colleghi bloccavano
prontamente l’aggressore che veniva portato al piano terra nel punto di raccolta; quindi
immediatamente dopo il Nucera si avvedeva della presenza a terra nel punto della
colluttazione di un coltello e lo raccoglieva quale arma usata dall’aggressore. Poi,
scendendo le scale, si avvedeva di aver riportato un taglio sulla giubba nel punto in cui era
stato colpito, nonché un corrispondente taglio anche sul corpetto interno di protezione.
Solo allora capiva di essere stato colpito dalla punta del coltello, per cui si precipitava al
piano terreno per individuare l’aggressore ma non riusciva a riconoscerlo fra i presenti; né
riusciva a ricordare chi erano i colleghi presenti che avevano fermato l‘aggressore, senza
peraltro separarlo dagli altri non sapendo cosa fosse realmente successo.
- A seguito di perizia disposta dal P.M., la quale verificava che i due tagli sulla giubba
non potevano essere conseguenza di un solo colpo, ma almeno di due, il Nucera,
nell’interrogatorio del 07/10/2002 mutava versione dei fatti: “… Questa persona cominciò
ad urlare ma non sono riuscito ad intendere cosa perché forse parlava una lingua
straniera che non ho riconosciuto, nello stesso tempo tendeva il braccio destro verso di
me. A quel punto io l’ho affrontato colpendolo al torace con il corpo proteso in avanti e
impugnando il tonfa all’impugnatura con la mano destra e nella parte lunga con il braccio
sinistro. Ho avuto la sensazione però di essere stato colpito anche io, forse proprio perché
mi ero proteso troppo con il corpo in avanti. La persona indietreggiando sempre con il
braccio teso in avanti stava per perdere l’equilibrio ed ha cercato a questo punto di
aggrapparsi a me, al mio braccio, senza riuscirvi, nel frattempo riuscendo però a sferrare
un altro colpo che mi raggiungeva sempre nella parte frontale. Cadeva infine a terra e io
nell’impeto l’ho scavalcato, dopodiché i miei colleghi lo hanno immobilizzato, trascinandolo
via e lo allontanavano del tutto”.
Tali versioni sono, ciascuna in sé considerata, inattendibili e valutate contestualmente
fonte di insanabile contrasto.
- Il Nucera ha riferito nell’interrogatorio di essere più alto dell’aggressore:
fronteggiandosi i due antagonisti a braccia tese, come riferito dal Nucera, ed essendo egli
avvantaggiato dalla lunghezza maggiore del braccio e da tutta la lunghezza del
manganello con il quale ha allontanato l’avversario, non è possibile che Nucera sia stato
colpito dall’antagonista, per quanto esso imputato fosse proteso in avanti, perché ciò
sarebbe stato possibile solo se, con modalità del tutto illogica (e contraria a quanto riferito
dallo stesso Nucera), avesse sospinto l’avversario tenendo il tonfa con il braccio flesso.
Soprattutto non è comprensibile che l’antagonista abbia potuto colpire Nucera, con la forza
necessaria a tagliare sia il giubbotto, sia la pettorina in plastica sottostante, facendo un
rapido salto indietro: contrasta con le più elementari e note leggi della fisica che un corpo,
già alla massima distanza possibile da quello che lo fronteggia, muovendosi all’indietro
possa ancora non solo colpire, ma anche solo toccare l’altro corpo.
Quanto sopra osservato vale anche in relazione alla seconda versione dei fatti secondo la
quale il Nucera avrebbe avuto la sensazione (quindi non si sarebbe trattato di un colpo
violento) di essere stato attinto (una prima volta) per essersi proteso troppo verso
l’antagonista (ma allora egli non sarebbe riuscito ad allontanarlo puntandogli il tonfa al
torace, come da lui sostenuto); a questo punto l’aggressore sempre indietreggiando con il
braccio teso (e quindi senza più possibilità di contatto con il Nucera), perso l‘equilibrio
avrebbe cercato, senza riuscirci, di aggrapparsi al braccio del Nucera, tuttavia riuscendo a
sferrare un altro colpo che raggiungeva il predetto al torace; infine il Nucera sarebbe quasi
rotolato addosso all’antagonista. Questa seconda versione è ancora più incredibile della
prima: l’aggressore allontanato all’indietro perde l’equilibrio, non riesce a sorreggersi e
quindi non trova alcun punto di appoggio e prosegue la caduta all’indietro, ma tuttavia
mentre si allontana sempre più dal Nucera riesce a sferrare il secondo colpo, quello più
violento, che attinge al petto il poliziotto provocando la seconda lacerazione sia al
giubbotto sia al corpetto protettivo sottostante. L’assurdità di tale tesi è “in re ipsa” per
l’insita impossibilità oggettiva che i fatti possano essersi svolti in tal modo.
Oltre all’intrinseca inattendibilità di ciascuna di dette versioni, non può non rimarcarsi la
evidente diversità ed incompatibilità reciproca fra le stesse, nonché la direzione assunta
dal notevole mutamento di strategia difensiva, coerente con le risultanze della perizia di
parte del P.M. che aveva escluso la compatibilità delle lacerazioni sugli abiti con la
dinamica dei fatti riferita dal Nucera nella annotazione di servizio. È evidente che nella
prima versione dei fatti il Nucera ha riferito di essere stato attinto da un solo colpo, mentre
nella seconda ne ha riferiti due, e trattasi di differenza sostanziale, non giustificata dal
Nucera, e spiegabile solo con l’esito della perizia alla quale egli intendeva allineare le
proprie dichiarazioni.
A quanto sopra deve aggiungersi anche l’incompatibilità con le versioni rese dal
coimputato Panzieri, anch’essa significativa della insussistenza dell’aggressione.
- Nelle relazione di servizio del 22/07/2001 Panzieri riferisce, per avervi assistito,
l’episodio in cui Nucera entrava in colluttazione con un aggressore sconosciuto che teneva
un oggetto in mano, aggressore che veniva fermato e accompagnato al centro di raccolta;
viceversa nell’interrogatorio del 24/07/2003 Panzieri ha sostenuto che “NUCERA entra
insieme al collega... quell’altro collega e io stavo di... di fianco al... al battente e ho visto
questa persona che... fra il chiaro e il buio che veniva avanti questa ombra, che aveva il
braccio alzato, una specie di pugno alzato, non so se fosse un qualche oggetto o
qualcosa. E basta, perché poi in quel punto lì io ho lasciato e non sono... non so se
l’hanno preso... chi l’ha preso questo, chi l’ha arrestato, non lo so, perché io poi sono
scappato di sopra... mi ricordo bene il punto delle scale perché sono scappato.” Nella
seconda versione il Panzieri sostiene di non aver visto neppure alcun oggetto in mano
all’aggressore e di essersi subito allontanato senza neanche sapere se l’aggressore fosse
stato neutralizzato. Appare evidente la presa di distanza di Panzieri dall’episodio, sia con
riferimento al possesso di un oggetto da parte dell’aggressore, sia con riferimento al suo
fermo. Così come appaiono eclatanti le divergenze rispetto alle versioni fornite dal Nucera,
che ha indicato il Panzieri come collega partecipe in tutto e per tutto all’episodio dall’inizio
alla fine, compresa la neutralizzazione dell’aggressore ed il suo trasporto al centro di
raccolta.
Ulteriore incongruenza grave è ravvisabile nella tesi sostenuta dal Nucera secondo la
quale egli non si sarebbe accorto subito di essere stato accoltellato, ma solo in un
secondo momento, vedendo il coltello a terra, avrebbe capito che quello era l’oggetto
impugnato dall’aggressore, ed in un successivo momento ancora, accortosi per caso del
taglio al giubbotto, avrebbe capito di essere stato vittima di un accoltellamento; ma ormai,
a suo dire, era troppo tardi per identificare l’aggressore. Nella annotazione il Nucera aveva
riferito fin da subito di aver visto che l’aggressore impugnava a braccio teso un coltello
puntandoglielo alla gola; il successivo mutamento di versione secondo la quale
l’aggressore avrebbe solo proteso un braccio in avanti non ha alcun senso, e non spiega
la repentina azione difensiva intrapresa dal Nucera; la consapevolezza dell’uso del coltello
da parte dell’aggressore e la percezione di un colpo vigoroso al torace (prima versione) e
di due colpi (seconda versione) esclude che il Nucera abbia potuto sottovalutare la gravità
dell’episodio ed essersi allarmato solo dopo aver visto il taglio. In realtà questo tardivo
tentativo di dilazionare il momento di presa di coscienza circa la gravità del fatto serve a
fornire la spiegazione dell’incredibile circostanza della mancata identificazione e del
mancato arresto dell’autore di un tentato omicidio (o quantomeno di un’aggressione con
arma bianca) nel contesto di un’operazione di messa in sicurezza realizzata con una
quantità di uomini diverse volte multipla del numero dei presenti nella scuola.
Ulteriore elemento di dubbio sulla dinamica dei fatti è rappresentato da quanto riferito
dell’imputato Luperi nel suo interrogatorio del 07/07/2003: appreso l’episodio direttamente
da Nucera, questi gli avrebbe riferito che l’aggressore era riuscito a scappare e a
dileguarsi, versione confermata anche dopo la contestazione della diversa dinamica riferita
da Nucera circa l’immediata immobilizzazione dell’aggressore.
Costituisce, in ogni caso, inspiegabile anomalia il fatto che in una operazione come quella
in esame, finalizzata ad arrestare violenti attivisti, nella quale secondo le tesi sostenute fin
da subito gli operatori si sono trovati a dover affrontare atti di resistenza violenta,
l’attentatore armato di coltello che aveva aggredito un agente, dopo essere stato
prontamente immobilizzato, viene perso nel mucchio degli arrestati e non più identificato. A
parte il fatto che la gravità dell’episodio era chiara fin da subito, in ogni caso si sarebbe
trattato di un episodio di aggressione che avrebbe consentito l’unica attribuzione certa di
un fatto di resistenza ad un responsabile ben individuato (contrariamente a quanto invece
è poi accaduto, come emergerà nell’esame degli atti di P.G., ove mancano attribuzione
specifiche ed individuali di fatti illeciti), e quindi nessuna dilazione o trascuratezza era
giustificabile.
Ma, ancora, la tesi della mancata identificazione dell’aggressore non è credibile per
un‘ulteriore considerazione. Risulta contrario contemporaneamente a qualsiasi massima di
esperienza e ad elementare regola di comportamento della polizia giudiziaria (ma anche
offensivo per l’intelligenza di chiunque) che il né il Nucera, né i suoi superiori ai quali
sarebbe stato riferito l’episodio, constatata la commissione di un tentato omicidio, nella
necessaria consapevolezza che il responsabile si trovava comunque ancora all’interno
della scuola insieme con le altre persone arrestate, non abbiano fatto nulla per
identificarlo. Si consideri che il Nucera afferma di aver subito trovato l’arma del delitto (che
risulta anche fotografata quale reperto sequestrato), per cui sarebbe bastato eseguire una
indagine sulle impronte digitali per cercare di identificare quale fra gli arrestati fosse il
responsabile dell’aggressione. Il fatto che non si sia neppure tentato né questo né altro
approccio investigativo denota senza ombra di dubbio che l’episodio è stato inventato di
sana pianta.
In tale quadro di molteplici e convergenti elementi di valutazione che concorrono a ritenere
insussistente l’episodio dell’aggressione armata a Nucera, le risultanze della perizia svolta
in incidente probatorio, secondo la quale le lacerazioni sugli indumenti sarebbero
compatibili con la seconda versione dei fatti fornita da Nucera sono irrilevanti. Innanzi tutto
il mero giudizio di compatibilità da un lato non prova nulla in positivo circa l’effettivo
accadimento dell’episodio, dall’altro lascia inalterato il giudizio di inattendibilità della
seconda versione fornita dal Nucera, incompatibile con la prima e sorta solo dopo che la
perizia del P.M. aveva sconfessato tale prima versione (come lo stesso perito ha
confermato).
In secondo luogo la Corte non ravvisa nella perizia alcuna convincente argomentazione
che consenta di superare i dubbi che le versioni fornite dal Nucera ingenerano circa la
possibilità oggettiva che i fatti siano andati nel modo da lui descritti; in particolare il nucleo
fondamentale delle due versioni consiste nell’affermazione che l’aggressore, mentre stava
cadendo indietro e aveva perso l’equilibrio, quando già si trovava alla distanza massima
consentita dall’estensione delle braccia e della lunghezza del manganello, abbia potuto
attingere il torace del Nucera, per di più con la intensità e la forza necessarie a tagliare sia
il giubbotto sia il corpetto protettivo sottostante. Non si rinviene nella perizia alcuna
spiegazione di come sia possibile tale dinamica, che contrasta che le più elementari e note
leggi della fisica (in particolare quella della gravità).
Il Tribunale, non prendendo posizione sul fatto storico dell’accadimento dell’aggressione
(“non appare dunque possibile ritenere provata con la dovuta certezza né la falsità
dell’aggressione in esame né il suo reale accadimento”) ha esposto alcune considerazioni
giustificative della condotta del Nucera, nonché elementi di dubbio sulla possibilità che si
sia trattato di una artata costruzione, che la Corte non condivide.
Sostiene il primo giudice che “la prima versione venne da lui (Nucera) redatta assai
sommariamente nell’immediatezza del fatto, quando ancora poteva essere confuso per
quanto accadutogli e non del tutto consapevole della necessità di essere particolarmente
preciso nella descrizione dei fatti”: ma l’affermazione urta frontalmente con quanto riferito
dal teste Gallo Nicola, incaricato di redige la CNR, il quale nella deposizione del
18/04/2007, consapevole della importanza dell’episodio riferito da Nucera e della sua
probabile inesperienza nel redigere atti di P.G., lo esortò più volte alla chiarezza e
completezza di esposizione “gli dissi: qui devi scrivere tutto, come sono andati, nei minimi
particolari, quando sei entrato, chi c’era, chi non c’era, anche per dire c’erano molte
persone, poco, chi ti ha aiutato… devi essere chiaro nei minimi particolari… gli consigliai
di essere chiaro fino al punto di scrivere anche dettagli che a lui potevano parere
insignificanti, cioè quando è entrato, con che mano l’ha colpito… è importante che tu
scriva tutto quello che è successo, dalla luce, dall’intensità della luce, in quanti eravate,
chi c’era dietro di te che può confermare tutto quello.” Deve pertanto escludersi qualsiasi
stato confusionale e superficialità per mancata consapevolezza dell’importanza
dell’annotazione posto che la redazione della medesima è stata seguita personalmente dal
Gallo con le esortazioni al Nucera più sopra viste.
Richiama, poi, il Tribunale “lo scarso interesse personale sia del Nucera sia del Panzieri,
per di più soltanto aggregato al VII Nucleo, a creare false prove di una resistenza violenta
da parte di coloro che si trovavano nella Diaz”.
L’affermazione si connota per mancanza assoluta di atteggiamento critico che sempre
deve assistere il giudice nell’esame delle fonti di prova tanto più che essa si colloca in un
processo nel quale lo stesso il Tribunale ha dovuto riconoscere la falsità di atti finalizzata
alla calunnia e l’introduzione abusiva nella scuola delle bottiglie “molotov” in realtà ritrovate
altrove. Tale modo di argomentare denota anche la visione parcellizzata del processo,
come sue si trattasse di una serie di fatti separati l’uno dall’altro, solo occasionalmente
accaduti nel medesimo contesto spazio - temporale per una sorta di diabolica coincidenza.
In realtà la visione d’insieme dei fatti che il Tribunale ben aveva di fronte avrebbe dovuto
indurlo a trovare il movente della condotta di Nucera (come di coloro che portarono le false
molotov) nella necessità di attribuire agli arrestati una serie coerente di fatti di reato tali da
giustificare l’operazione e gli arresti stessi, una volta verificato l’esito infelice dell’irruzione.
Si pensi ancora alla circostanza pacifica, pure trascurata dal Tribunale, che sono state
smontate le intelaiature in metallo di sostegno degli zaini e sono state presentate e
sequestrate come armi. Appare indubbio che l’attività di asportazione delle barre
metalliche esclude in radice possibili soggettivi errori di valutazione sulla natura e la
funzione di tali barre (problemi interpretativi che avrebbero potuto porsi se le stesse
fossero state trovate già separate dagli zaini); viceversa la condotta di estrarle e poi
ritenerle armi denota la dolosa preordinazione di una falsa accusa. Indubbiamente ci
saranno stati uno o più operatori che hanno proceduto in tal senso, i quali altrettanto
certamente non avevano un interesse personale a far ciò, ma evidentemente compivano
una attività loro richiesta, o suggerita, che costituiva un tassello della più amia opera
mistificatoria in corso. Lo stesso vale per quanto compiuto da Nucera e Panzieri.
Prosegue il Tribunale a sostegno della inattendibilità dell’ipotesi delittuosa, che “si
dovrebbe ritenere che il Nucera fosse già in possesso del coltello poi sequestrato e che
nel breve tempo dell’irruzione, mentre numerosi suoi colleghi procedevano
nell’operazione, con la partecipazione del Panzieri o comunque alla sua presenza, abbia
avuto il tempo di colpirsi o farsi colpire, con i rischi anche fisici che ciò poteva comportare,
ovvero di togliersi la giacca ed il corpetto, risistemarli insieme sul pavimento o su un
tavolo, in posizione tale da simulare che gli stessi fossero regolarmente indossati, e quindi
di colpirli con il coltello”.
Francamente non si vede quale potesse essere il problema per un operatore di polizia nel
possedere un coltello: si pensi che diverse parti offese (Doherty Nicole Anne, Moth
Richard, Robert Pollok, Rafael Galloway, Ian Farrel) hanno riferito che durante il
pestaggio alcuni poliziotti muniti di coltello tagliavano ciocche di capelli che conservavano
come “trofei”; senza considerare il notevole numero di coltelli sequestrati, che ben
possono essere stati usati prima di essere effettivamente raccolti fra i reperti. Quanto alla
condotta necessaria per procurare le lacerazioni agli indumenti, escluso che Nucera abbia
avuto bisogno di farsi colpire effettivamente rischiando la propria incolumità, vi era tutto il
tempo e la possibilità in una delle numerose aule e utilizzando uno dei numerosi banchi o
cattedre scolastiche, per stendere gli indumenti uno dentro l’altro come risultano quando
sono indossati, e procurare i tagli con un coltello affilato.
Le perplessità segnalate, e le giustificazioni avanzate dal Tribunale non hanno, quindi,
alcun pregio di fronte all’evidenza delle molteplici concordi ed univoche circostanze
attestanti la falsità dell’episodio.
In relazione a questo episodio a carico di Nucera e Panzieri sono stati formulati specifici
capi di imputazione:
per il delitto di falso aggravato (I ed M) in concorso fra loro e con gli altri coimputati
sottoscrittori degli atti nonché di Gratteri, Luperi e Canterini;
per il delitto di calunnia aggravata (L e N) in concorso fra loro e con i coimputati indicati al
capo B (Luperi e Gratteri) nonché, per il rimando operato dal capo B al capo A, anche in
concorso con tutti i sottoscrittori degli atti.
Pertanto l’analisi dei profili di responsabilità specificamente attribuibili ai due imputati verrà
condotta unitamente a quella degli altri coimputati. In questa fase è solo opportuno rilevare
che la calunnia addebitata a Nucera e Panzieri ha lo stesso contenuto oggettivo di quella
contestata agli altri coimputati, contenuto consistente nella falsa accusa agli arrestati, con
la consapevolezza della loro innocenza, di essersi resi responsabili dei delitti di
associazione a delinquere finalizzata alla devastazione ed al saccheggio, resistenza
aggravata a pubblico ufficiale, possesso di congegni esplosivi ed armi improprie. Tale
condotta calunniatrice è stata realizzata mediante le false annotazioni dell’aggressione a
Nucera, utilizzate a corroborare la falsa accusa di resistenza contenuta nella CNR, alla
quale le due annotazioni sono state allegate. In altri termini la calunnia contestata ai capi L
e N non si riferisce al falso addebito del reato di tentato omicidio a carico di soggetto
rimasto ignoto, in quanto tale condotta integra gli estremi della simulazione di reato; infatti
“Il delitto di calunnia sussiste anche quando l'incolpazione venga formulata attraverso la
simulazione a carico di una persona, non specificamente indicata ma identificabile, delle
tracce di un determinato reato - nella forma, cioè, della incolpazione cosiddetta reale o
indiretta - purché la falsa incolpazione contenga in sé gli elementi necessari e sufficienti
all'inizio dell'azione penale nei confronti di un soggetto univocamente e agevolmente
identificabile” (Sez. 6, Sentenza n. 4537 del 09/01/2009), e nel caso di specie non è
possibile identificare univocamente ed agevolmente il soggetto calunniato, non essendo a
ciò sufficiente che si tratti di uno fra i soggetti arrestati. In definitiva la simulazione del
reato di tentato omicidio rappresenta la modalità con la quale, unitamente alla
sottoscrizione dei verbali di perquisizione e di arresto, la condotta calunniatrice di Nucera
e Panzieri si è concretata a danno di tutti gli arrestati.
LE BOTTIGLIE MOLOTOV
Nella CNR viene riferito il ritrovamento di bottiglie incendiarie tipo “molotov” al “primo
piano dell’edificio in luogo visibile ed accessibile a tutti gli occupanti”; nel verbale di
perquisizione e sequestro le bottiglie sono localizzate “nella sala di ingresso ubicata al
pian terreno”.
La detenzione illecita di tali ordigni è stata attribuita a tutti i soggetti arrestati in forza
dell’inciso sopra riportato della “visibilità ed accessibilità” a tutti i presenti.
È ammesso dalle difese di tutti gli imputati che in realtà tali ordigni non erano presenti
quella sera nella scuola Pertini, ma lì sono stati trasportati dall’esterno. Solo la difesa
dell’imputato Troiani ha sollevato dubbi sulla possibilità di identificare le bottiglie
sequestrate alla Diaz come quelle in realtà trovate nel pomeriggio in via Medaglie d’Oro di
Lunga Navigazione dall’ispettore Pasquale Guaglione, e sulla identificazione del Burgio
quale autista del mezzo sul quale le bottiglie erano state sistemate dopo il ritrovamento.
Ma tali dubbi, anche alla luce delle ammissioni di Troiani nel corso dei suoi interrogatori
(ammissioni delle quali si dirà in seguito), non inficiano la pacifica circostanza che le
molotov non erano nella scuola Pertini. Del resto ulteriore conferma si desume dalle
obiettive risultanze delle indagini su tutti i sequestri di bottiglie Molotov compiuti a Genova
in occasione del vertice G8, che dimostrano come le uniche bottiglie rinvenute con le
caratteristiche descritte sono quelle “formalmente” sequestrate nel corso della
perquisizione alla scuola Diaz (come da deposizione all’udienza 10/01/2007del teste Dott.
Gonan Giuseppe, nuovo dirigente DIGOS di Genova dall’11/09/2002).
È emerso nel corso del dibattimento, allorché sorse la necessità di visionare tali reperti,
che gli stessi sono scomparsi; secondo la Questura di Genova perché accidentalmente
distrutti per errore dell’artificiere incaricato della distruzione di altri reperti, ma secondo le
successive indagini svolte dalla Procura, la cui acquisizione al processo non è stata
ammessa dal Tribunale, perché intenzionalmente asportate da ignoti funzionari mediante
pressioni sul predetto artificiere.
È pacifico in causa che:
- il dott. Guaglione rinviene le due bottiglie Molotov in un sacchetto di plastica a seguito
delle operazioni di bonifica e perlustrazione della zona appena percorsa dagli scontri in
Corso Italia;
- il sacchetto viene preso in custodia dal dott. Donnini che lo depone su un automezzo
blindato nella sua disponibilità; egli ha affermato di aver preso l’iniziativa di collocare le
bottiglie al sicuro su un mezzo di cui aveva la disponibilità, così liberando il dott. Guaglione
ed il personale di questi dalla difficoltà di trasporto e detenzione dei due ordigni incendiari;
- il mezzo si allontana con il risultato che al Guaglione non resta che dare atto della sua
attività e relazionare al proprio dirigente in merito;
- al rientro in Questura Guaglione trova il dott. Piccolotti intento alla stesura della
relazione giornaliera, e gli fa presente la necessità di menzionare il ritrovamento delle
bottiglie, avendone perso il possesso, e la loro consegna al Donnini. Queste circostanze
sono state confermate al dibattimento dalla testimonianza del dott. Piccolotti, anche se
questi non intese menzionare il Donnini nella relazione.
L’identificazione del Burgio quale autista del mezzo sul quale Donnini aveva riposto le
molotov è avvenuta in base alla deposizione del Donnini che si è rifatto alle connotazioni
fisiche di tale autista da lui ben conosciuto (corporatura prestante e massiccia, come tale
inconfondibile e unica rispetto alla corporatura degli altri autisti) ed al riscontro
documentale degli ordini di servizio relativi all’assegnazione dei mezzi ai vari autisti; tale
collegamento fra Burgio e mezzo sul quale aveva riposto le molotov, se non è stato
espresso in termini di assoluta certezza per il tragitto da Corso Italia alla Questura, lo è
stato viceversa per il successivo tragitto, sempre sul medesimo “magnum”, dalla Questura
alla zona Foce, ove era acquartierato il Donnini; che tali viaggi siano potuti avvenire senza
riprendere consapevolezza della presenza a bordo delle molotov non è escluso dall’odore
delle stesse, posto che la presenza del cappuccio che ricopriva gli stoppini evitava la
propagazione dell’odore;
successivamente al Donnini viene chiesto di reperire personale e mezzi per organizzare i
famosi “pattuglioni”, per cui il “magnum” con le molotov viene in tale attività impiegato ad
opera dell’imputato Troiani in tal senso incaricato da Donnnini. Poi, dopo il rapido rientro in
Questura a seguito dell’aggressione al convoglio in via Battisti, tale “magnum” è
impegnato insieme con gli altri mezzi per l’operazione alla scuola Diaz Pertini. Questa, in
base alla deposizione di Donnini, è la ricostruzione più probabile che può farsi del
percorso seguito dal mezzo e dalle molotov dal loro ritrovamento fino all’arrivo alla Diaz
Pertini.
Sta di fatto che l’imputato Troiani, incaricato della cinturazione esterna, e l’autista Burgio
compaiono alla Pertini, come rappresentato nel filmato che li riprende: in particolare
l’autista Burgio è visto abbandonare il “magnum” in piazza Merani (operazione irregolare in
assenza di eventi straordinari e imprevedibili) e recarsi nel cortile della scuola Pertini, ove
è ripreso nelle vicinanze del gruppo di funzionari che maneggia il sacchetto contenente le
molotov, per poi tornare al suo mezzo.
Al fine di analizzare la vicenda dell’arrivo e della gestione delle molotov presso la scuola
Pertini occorre prendere le mosse dalle dichiarazioni rese dall’imputato Troiani.
Egli ha più volte fornito particolari diversi dei fatti nel corso dei vari interrogatori, ma è
comunque rinvenibile un nucleo solido e certo: nell’interrogatorio del 09/07/2002 Troiani ha
ammesso di essere stato consapevole di trasportare le molotov sul mezzo guidato da
Burgio nel tragitto dalla Questura a Piazza Merani, proprio perché avvisato dal Burgio
prima di partire; ha ammesso di aver chiesto al Burgio, che era rimasto con il mezzo in
Piazza Merani, di portare le molotov ad esso Troiani che si trovava nel cortile della scuola
Pertini; ha ammesso di aver consegnato le bottiglie molotov nel cortile della scuola al
collega Di Bernardini, ben conosciuto quale compagno di corso, che esso Troiani sapeva
intento a procedere alla perquisizione, spiegando agli inquirenti tale condotta con l’intento
di disfarsi di tale molotov non avendo né voglia né tempo di stilare un verbale di sequestro,
e chiedendo che a ciò provvedesse il Di Bernardini.
Di Bernardini, a sua volta, è costretto ad ammettere, in contrasto con le originarie
affermazioni già rese alla A.G. (secondo cui le bottiglie Molotov erano state trovate “nello
stanzone” della scuola e pertanto attribuibili a tutti gli occupanti), di aver effettivamente
incontrato il dott. Troiani che lo aveva chiamato dall’esterno, consegnandogli o comunque
facendogli visionare il reperto che era stato così messo a sua disposizione; egli, pur
descrivendo la scena della consegna come avvenuta all’esterno dell’edificio, nel cortile,
sulla soglia del portone, secondo l’ultima versione, nega di aver avuto o richiesto notizie
sulle modalità e sul luogo del ritrovamento delle molotov, né, addirittura, sul motivo per cui
Troiani gliele consegnava. Il Di Bernardini, in coerenza con l’assetto gerarchico esistente,
si sarebbe limitato ad investire del problema creato con la consegna delle molotov il suo
superiore diretto di riferimento, il dott. Caldarozzi, presente nel cortile insieme con tutti gli
altri funzionari apicali. Queste circostanze sono documentalmente riscontrate dalle riprese
filmate che mostrano la scena nella quale l’intero gruppo di funzionari responsabili dei
reparti impegnati alla perquisizione e i due superiori gerarchici apicali Luperi e Gratteri
sono attorno alle bottiglie Molotov appena consegnate.
Solo dopo la contestazione delle dichiarazioni altrui, il dott. Caldarozzi, che in occasione
del precedente interrogatorio in merito alla perquisizione nulla aveva riferito in proposito,
ammette non solo la fugace visione delle bottiglie in mano a Di Bernardini, ma il contatto
diretto con il reperto, nelle modalità riferite da Di Bernardini, confermando che quest’ultimo
lo pose alla sua diretta attenzione non all’interno dell’edificio, ma nel cortile (interrogatorio
02/07/2002); peraltro anche lui non avrebbe chiesto informazioni sulla provenienza e sulle
modalità di rinvenimento delle bottiglie molotov.
Il dott. Mortola, silenzioso in merito al reperto fino alla contestazione della falsità degli atti
di p.g. sul punto, nei suoi interrogatori riferisce di essre stato avvicinato da due ignoti
agenti del reparto mobile che gli avrebbero mostrato le bottiglie molotov in un sacchetto.
Egli afferma di non aver avuto alcun particolare interesse al rinvenimento di tale reperto e
di non aver chiesto spiegazioni o maggiori dettagli agli agenti, impartendo soltanto l’ordine
di riporre le bottiglie sopra il telo nero che era già steso nel luogo convenuto di raccolta di
tutti gli oggetti sequestrati; tale versione è mantenuta ferma anche dopo la contestazione
delle diverse versioni fornite da Troiani, Di Bernardini e Caldarozzi, che attestano una
diversa modalità di arrivo delle molotov sulla scena, e pur dopo la visione del filmato rep.
199 che ritrae Mortola insieme con gli altri funzionari davanti a Luperi che tiene il sacchetto
con le bottiglie incendiarie.
Il dott. Gratteri, nel primo interrogatorio (29/06/2002) ha sostenuto che avrebbe visto le
molotov, per la prima ed unica volta, in mano ad un operatore in borghese che le portava
senza il sacchetto, aggirandosi nel cortile come per mostrarle; tale soggetto non è stato
riconosciuto dal Gratteri nell’assistente Catania, rammostratogli in foto il quale, finite le
operazioni, effettivamente riportava le molotov in Questura tenendole in mano senza
sacchetto; nel secondo interrogatorio (30/07/2002) ha ammesso che subito qualcosa deve
essergli stato riferito da Caldarozzi, anche se non chiese nulla e, pur essendo la scena
avvenuta nel cortile, diede per scontato che le molotov fossero state ritrovate durante la
perquisizione; ha riferito di non ricordare la scena, ripresa nel rep. 199 e rammostratagli, in
cui si trovava in presenza degli altri funzionari e di Luperi che tiene in mano il sacchetto
con gli ordigni.
Il Dott. Luperi, dopo aver negato qualsiasi contatto con le molotov, messo di fronte
all’evidenza del filmato rep. 199 ha ammesso di aver ricevuto il sacchetto da Caldarozzi e
sostiene che prima Mortola lo avrebbe informato del ritrovamento; ha ammesso che il
gruppo di funzionari in quell’occasione discusse delle bottiglie; poi riferisce di aver
compiuto una telefonata tenendo in mano il sacchetto, e all’esito, essendosi disciolto il
gruppo di funzionari ed essendosi ritrovato solo, avrebbe affidato il sacchetto con le
molotov alla Dott.ssa Mengoni della Digos di Firenze, primo ufficiale di PG che riconobbe
sul posto; conferma di aver rivisto le bottiglie molotov (ma ancora nel sacchetto) sullo
striscione steso nella scuola sul quale erano stati sistemati tutti i reperti in sequestro.
La Dott.ssa Mengoni, dal canto suo, ha riferito che avvicinatasi al cancello di accesso al
cortile della scuola Pertini con i suoi tre colleghi, venne chiamata dal Luperi che teneva in
mano il sacchetto con le due bottiglie; avuta la consegna il Luperi le avrebbe detto di
conservarle al sicuro fra i reperti, essendo pericolose; a questo punto la teste Mengoni,
che si doveva preoccupare di conservare tali pericolosi reperti e non sapeva bene come,
perde di vista i tre uomini del suo gruppo, che non può rintracciare telefonicamente perché
il suo cellulare era rotto, e decide di chiamare dall’esterno un collega della DIGOS di
Napoli del quale non ricorda il nome. Con tale collega entra dall’ingresso secondario di
sinistra della scuola e in un atrio vuoto lontano dal passaggio di persone ripone il
sacchetto con le molotov dicendo al collega napoletano di stare fermo lì mentre lei andava
in cerca dei colleghi; trovati i tre colleghi e tornata con loro nell’atrio predetto, la teste non
rinviene più né il collega di Napoli né il sacchetto con le bottiglie Molotov. Si dirige subito
verso la palestra (unico luogo dove vi erano altre persone) e qui vede le bottiglie senza
sacchetto poste su uno striscione nero insieme agli altri oggetti sequestrati; confermava
che nel filmato reperto 172 parte 2 si intravede lo striscione mentre viene posto a terra
proprio davanti al dottor Luperi, al dottor Caldarozzi e al dottor Gratteri.
L’identificazione dei protagonisti di questa importante fase degli avvenitmenti oggetto del
processo non è dubbia, perché in primo luogo nessun imputato contesta la propria
apparizione nel filmato e, in secondo luogo, il teste Salvemini (in servizio alla Questura di
Palermo e aggregato alla Questura di Genova, da giugno a settembre 2002, per compiere
indagini esclusivamente in ordine ai fatti oggetto del presente processo) afferma (udienza
10/01/07) che nel filmato Rep. 199 min. 8,55 si intravededono dalla sinistra il dr.
Caldarozzi, il dr. Luperi, di spalle con la giacca blu, il dr. Fiorentino, con il completo grigio,
il dr. Canterini, di spalle con le maniche della divisa rivoltate; alla destra del dr. Canterini il
dr. Mortola ed il dr. Murgolo; all’estrema destra il dr. Gratteri in giacca; all’interno della
palestra si vede una persona in abiti civili con il telefono è il V. Sovr. Alagna della Digos di
Genova; all’estrema destra vi è il dr. Troiani, di cui si vede solo il volto.
In base alla ricostruzione dei tempi desumibile dalla consulenza della parti civili, possono
scandirsii le seguenti fasi:
00:41:29:08 – inizia la scena del c.d. “conciliabolo” ove compare Luperi con il sacchetto in
mano
00:41:35:17 – Luperi risponde alla chiamata di La Barbera
00:41:39:13 – finisce la ripresa dall’esterno della cancellata
00:42:06 – finisce la telefonata fra Luperi e La Barbera
00:42:56:08 – riprende l’inquadratura del cortile
00:43:13:17 – si vedono Gratteri e Mortola
00:43:15:06 – si vedono Luperi e Caldarozzi
00:43:56:11 – si vede Mortola al telefono, vicino ad altri funzionari
00:44:01:16 – si vede ancora Mortola che parla al telefono. Sulla destra un gruppo di
funzionari, Luperi compare alla sua sinistra, si muove verso la porta laterale
00:44:02:12 – Luperi incrocia un agente con casco che va verso la porta centrale
00:44:03:02 – spunta la testa di Luperi all’altezza dell’angolo sinistro della finestra, poi
scompare perché la videocamera segue l’ingresso dell’agente dalla porta centrale
00:44:08:09 – di nuovo inquadrato Mortola al telefono
00:44:09:02 – di nuovo inquadrato Luperi che ritorna verso Mortola
00:44:09:19 – Luperi e Mortola sono vicini
00:44:10:14 – la telecamera inquadra la porta laterale sinistra:compare un operatore di
Polizia che regge con un braccio un oggetto che assomiglia un casco e con l’altro un
oggetto che assomiglia ad un sacchetto
00:44:10:21 –mentre l’agente entra, Mortola e Luperi stanno parlando (a sinistra del palo,
lato destro prima della finestra)
00:44:16:18 – Luperi e Mortola escono dal campo della ripresa
00:44:17:18 – Mortola e Luperi parlano, poi Luperi si muove verso l’ingresso e si ferma
00:44:49:04 – inizio della ripresa dell’ingresso della scuola (Gratteri parla con Luperi di
spalle). Dietro di loro stanno stendendo il telo scuro
00:45:01 – Calderozzi esce e rientra
00:45:03:13 – Mortola entra nel quadro, da sinistra, sempre parlando al telefono
00.45:11:18 – si vede Troiani dietro il gruppo con Mortola e Canterini in cortile
00:45:13:01 – si vede Luperi di profilo, vicino a lui si trova Gratteri
00.45.16:21 – Caldarozzi, Luperi e Gratteri all’interno vicino alla porta di ingresso
00:45:19:07 – compare la mano guantata proprio dietro a Luperi, che poi si sposta verso
destra; compare il sacchetto azzurro che viene maneggiato dalla mano guantata
00:45:19:22 – il sacchetto contiene oggetti a forma di bottiglia
00:45:21:02 – ricompare la mano e un lembo del sacchetto
Analizzando ora le singole posizioni degli imputati si impongono le seguenti
considerazioni.
BURGIO
Egli è sicuramente consapevole della presenza a bordo del “magnum” da lui guidato dalla
Questura fino alla Diaz delle due bottiglie molotov, e, su richiesta di Troiani, porta a costui
gli ordigni nel cortile della scuola Pertini; poi torna dal mezzo in Piazza Merani.
Rileva la Corte che Burgio, quale semplice autista, non risulta abbia mai condotto da solo
il ”Magnum” con le bottiglie molotov a bordo; il ricovero degli ordigni su tale mezzo alla
presenza sempre di superiori funzionari che ne avevano la disponibilità esclude la
riferibilità della detenzione al Burgio, che si limitava ad eseguire gli ordini di movimento via
via impartitigli. Anche a voler ritenere la sindacabilità (ma non si vede come, trattandosi di
ordini di servizio che non avevano per oggetto diretto il trasporto degli ordigni) di tali ordini
di spostamento, tuttavia la custodia delle bottiglie molotov all’interno di veicolo, quindi in
ambito istituzionale riferibile all’autorità di polizia e confinato rispetto al pubblico, esclude
l’illegittimità della detenzione e del porto delle armi le quali legittimamente potevano
essere condotte dal luogo di rinvenimento alla Questura su un veicolo della Polizia.
L’allungamento dei tempi di tale trasporto o la vera e propria deviazione dal percorso che
si sarebbe dovuto seguire, in quanto disposti da superiori gerarchici senza manifestazione
esplicita degli intenti illegittimi di tali scelte, non possono essere imputati a condotta illecita
del Burgio.
Ad uguale conclusione deve giungersi per il trasporto a mano degli ordigni dal “magnum”
posteggiato in Piazza Merani fino al cortile della scuola Pertini, perché trattasi di
adempimento di ordine ricevuto dal superiore Troiani, in relazione al quale non vi è prova
sufficiente che Burgio sapesse per quali scopi illeciti gli ordigni venivano richiesti presso la
scuola. Può anche ipotizzarsi che dopo tutto quel tempo che trasportava le bottiglie a
bordo del suo mezzo il Burgio abbia avuto qualche sospetto sulla destinazione degli
ordigni, e che il suo coinvolgimento senza cautele particolari da parte del Troiani sia
riferibile ad una partecipazione cosciente del Burgio a quanto il primo stava facendo, ma
trattasi di semplici indizi che non assurgono al rango di prova.
Le considerazioni che precedono, quindi, escludono la sussistenza di prova sufficiente di
responsabilità con riferimento sia alla imputazione di detenzione e porto illegale di arma,
sia di calunnia; in particolare non sussistono chiari elementi che consentano di affermare
che Burgio fosse consapevole che le molotov venivano richieste presso la scuola Pertini
perché la detenzione ne fosse attribuita a tutti i presenti, che sarebbero stati accusati
falsamente di quello e di altri reati.
Consegue l’assoluzione del Burgio da tutte le imputazioni ascrittegli.
TROIANI
Originariamente imputato di sola calunnia, a seguito della formulazione di imputazione
coatta e della decisione della Corte di Cassazione (34966/07) che ha annullato la
sentenza di non luogo a procedere del GUP (27/07/2005), è accusato anche di falso in
concorso con Luperi, Gratteri ed i sottoscrittori degli atti trasmessi alla A.G. in relazione
alla introduzione delle molotov nella scuola. Il Tribunale ne ha accertato la responsabilità
per tutti i reati ascritti, e la sentenza merita conferma tranne che per l’imputazione di
calunnia.
Come si è visto Troiani ha ammesso di aver trasportato le bottiglie molotov dalla Questura
alla scuola Diaz senza peraltro indicarne il motivo, pur essendo stato informato da Burgio
prima di partire della presenza degli ordigni a bordo del “magnum” (ordigni che avrebbe
ben potuto lasciare in Questura invece che portare con sè). Consegue che quando
consegna le bottiglie a Di Bernardini dicendo che erano state trovate nel cortile della
scuola, o sulla scale di ingresso del portone, o in Piazza Merani vicino alle auto, o nel
tragitto tra Piazza Merani ed il cortile della scuola, dice dolosamente il falso a Di Bernardini
secondo la sua stessa versione dei fatti. Non solo, ma consegna le bottiglie in quanto
oggetti degni di interesse per i funzionari presenti, senza fornire alcuna spiegazione
particolare di tale consegna (come, ad esempio, quella riferita agli inquirenti di voler
evitare di redigere un verbale di sequestro). E non è vero quanto Troiani ha sostenuto
nell’interrogatorio predetto, cioè che non sapesse che era in corso una perquisizione,
perché nelle dichiarazioni rese come persona informata dei fatti, che rilette ha confermato
integralmente all’inizio dell’interrogatorio e sono state acquisite agli atti del dibattimento,
ha riferito di esser stato informato dal Dott. Caldarozzi alla partenza dalla Questura che ci
sarebbe stata una perquisizione presso la Diaz.
Consegue inevitabilmente che consegnando a Di Bernardini, occupato nelle operazioni di
perquisizione, le bottiglie molotov con le modalità che lui stesso ha riferito Troiani era
perfettamente consapevole che tali ordigni sarebbero stati oggetto di sequestro quali
reperti trovati nell’ambito della perquisizione presso la scuola Diaz, mentre ben sapeva
che provenivano da tutt’altro luogo (e ciò anche se effettivamente non avesse riferito che
le molotov erano state ritrovate all’interno della scuola). Del resto lui stesso ha ammesso
che la consegna è stata funzionale a far redigere il verbale di sequestro ad altri, in quanto
per il proprio reparto sarebbe stato “difficile” (SIT del 01/07/2002). E questi “altri”, al
sequetro sollecitato da Troiani, in mancanza di indicazioni specifiche da parte di costui
avrebbero provveduto includendo necessariamente le molotov tra i reperti oggetto di
sequestro nell’ambito della perquisizione in corso.
Sussiste pienamente la responsabilità concorsuale per il delitto di falso essendo
indubitabile la consapevolezza in capo al Troiani che in seguito alla sua condotta sarebbe
stato redatto un atto di perquisizione e sequestro falso nella parte in cui avrebbe riferito il
ritrovamento delle due bottiglie molotov (ordigni da sequestrare in ogni caso) durante la
perquisizione nella scuola Pertini.
Tale illecita condotta tenuta dal Troiani rende illegittimi anche la detenzione ed il trasporto
delle bottiglie molotov dal “magnum” fermo in Piazza Merani fino al cortile della Pertini
(tramite l’autore mediato Burgio), perché la materialità dei fatti che integrano i delitti
contestati non è giustificata da finalità legittima.
Non è invece condivisibile l’affermazione di responsabilità per il delitto di calunnia; al falso
ritrovamento degli ordigni presso la scuola non conseguiva automaticamente anche la
attribuzione della loro detenzione a tutti gli occupanti della scuola. Tale falsa accusa è
frutto della scelta operata dagli altri coimputati; Troiani poteva certamente rappresentarsi
che sarebbe stato falsamente attestato il ritrovamento delle molotov presso la scuola, ma
non vi è prova sufficiente che fosse consapevole anche della strumentalità di tale falso
rispetto alla calunnia che sarebbe stata contenuta negli atti. La sua partecipazione
all’unitario disegno criminoso volto a costruire una serie di circostanze criminose a carico
degli arrestati non può ragionevolmente superare la fase della falsa rappresentazione
della presenza delle “molotov” presso la scuola.
DI BERNARDINI
Nel verbale di SIT rese il 21/07/2001, integralmente confermate nel successivo
interrogatorio ed acquisite agli atti del dibattimento, il Di Bernardini sostiene di essere stato
informato che nello stanzone al piano terra vicino alla porta di accesso erano state trovate
le molotov. Nei successivi interrogatori del 17/06/2002 e del 06/07/2002 ammette che,
dopo essere stato una decina di minuti all’interno della scuola nel locale palestra, venne
chiamato da Troiani, da lui ben conosciuto, il quale, in compagnia di una assistente gli
consegnò un sacchetto azzurro contente due bottiglie molotov, da lui riconosciute come
quelle sequestrate. Egli senza nulla chiedere al Troiani circa modalità e luogo di
rinvenimento, avrebbe subito avvisato del fatto il Dott. Caldarozzi presente, e poi si
sarebbe disinteressato delle bottiglie. Da ultimo nell’interrogatorio del 30/07/2002, richiesto
di precisare il momento in cui ebbe il primo contatto con la bottiglie molotov, l’imputato
ribadisce quanto sopra riportato, sostenendo che la diversa versione fornita nel verbale di
perquisizione e sequestro e di arresto è stata da lui firmata confidando che vi fosse stato
un accertamento da parte di altri colleghi.
Nell’interrogatorio del 17/06/2002 Di Bernardini conferma di aver partecipato alla
decisione, condivisa da Gava, Ferri e Caldarozzi, di arrestare tutti i presenti nella scuola
con l’accusa di associazione a delinquere, ipotesi accusatoria attentamente vagliata
(interrogatorio del 06/07/2002) e ancorata alla circostanza che tutte le cose sequestrate
erano nella scuola, e quindi erano riferibili agli occupanti.
Dalle stesse ammissioni sopra riferite emerge la responsabilità del Di Bernardini per i reati
di falso e calunnia: egli, dopo essere stato all’interno della scuola per una decina di minuti
ed essere transitato per i luoghi ove gli atti indicano presenti le bottiglie molotov, ha avuto
il primo contatto con le stesse all’esterno, nel cortile, allorché Troiani gliele fece vedere e
gliele consegnò. Non è quindi possibile che egli abbia sottoscritto i verbali di perquisizione
e sequestro e di arresto con l’indicazione della presenza delle molotov all’interno della
scuola per errore, confidando nell’accertamento in tal senso compiuto da altri, perché
invece ben sapeva per conoscenza diretta che le molotov le aveva portate Troiani, che
proveniva dall’esterno della scuola. Né Di Bernardini ha indicato da quale circostanza
potesse anche solo lontanamente ipotizzare che dall’interno le molotov fossero state
portate fuori e poi da Troiani riconsegnate agli operatori addetti alla perquisizione senza
nulla dire al riguardo: a parte l’assurdità di tale ipotesi, la stessa contrasta con quanto il Di
Bernardini aveva potuto constatare direttamente nei dieci minuti in cui era stato all’interno
della scuola.
Consegue la piena consapevolezza in capo al Di Bernardini della falsità contenuta nei
predetti verbali circa la presenza delle bottiglie molotov all’interno della scuola.
Quale logica conseguenza deriva che, avendo egli motivato le accuse contestate agli
arrestati con la detenzione di tutti gli oggetti rinvenuti nella scuola, la falsità della affermata
presenza delle bottiglie molotov prova anche la sua responsabilità per la calunnia con
riferimento a tutte le ipotesi delittuose ascritte agli arrestati, le quali sugli ordigni incendiari
hanno visto la più solida base di contestazione.
CALDAROZZI
Nell’interrogatorio reso il 31/05/2002 riferisce di esser entrato nella scuola Pertini e di aver
visionato il piano terreno ed il primo piano; poi ammette di aver visto le bottiglie molotov in
mano al Di Bernardini nel cortile della scuola Pertini; nell’interrogatorio del 02/07/2002 non
è in grado di riferire cosa gli avesse detto Di Bernardini a proposito delle molotov, e
conferma di aver “messo l’accento sul discorso associativo” rispondendo ad una domanda
sulla centralità delle molotov nell’operazione di perquisizione. Nell’interrogatorio del
30/07/2002 ammette di aver firmato il verbale di arresto senza sapere chi ed in qual modo
avesse accertato il luogo di ritrovamento delle molotov ivi indicato.
Anche per Caldarozzi valgono le osservazioni compiute per Di Bernardini. Egli aveva
visionato sia il piano terreno sia il primo piano della scuola, per cui sapeva che le bottiglie
viste - circa 40 minuti dopo l’ingresso nella scuola - in mano al Di Bernardini nel cortile non
provenivano dall’interno. La sottoscrizione di circostanza contraria al vero nel verbale di
arresto integra pienamente gli estremi del contestato falso perché anche Caldarozzi era
pienamente consapevole che tali ordigni non erano “al piano terra in prossimità
dell’entrata, in luogo visibile e accessibile a tutti”. Anche Caldarozzi, argomentando
l’imputazione di reato associativo con riferimento alle molotov, era consapevole di
accusare falsamente sapendoli innocenti tutti gli arrestati, che, a parte ogni altra
considerazione, non potevano essere ritenuti responsabili della detenzione di ordigni
incendiari che non erano all’interno della scuola.
MORTOLA
Nell’interrogatorio del 23/07/2002 riferisce di aver visto le bottiglie molotov per la prima
volta all’interno della scuola, al piano terra, mostrategli da due agenti del Reparto Mobile
(che egli non conosce e non sa dire da dove venissero) i quali tenevano in mano un
sacchetto. Proprio esso Mortola avrebbe dato loro la disposizione di posare le bottiglie sul
telo nero insieme con tutti gli altri reperti, ma non sa dire che fine abbia fatto il sacchetto.
Ammette di aver sottoscritto il verbale di arresto senza che nessuno dei presenti ai quali
l’atto venne letto avesse dato indicazioni sul luogo di ritrovamento delle molotov.
Nell’interrogatorio del 30/07/2002 Mortola ha confermato la precedente versione dei fatti
pur dopo aver visionato il filmato Rep. 199, che lo ritrae nel cortile alla presenza degli altri
funzionari e di Luperi che tiene il mano il sacchetto.
La versione fornita da Mortola è oggettivamente smentita dalle risultanze probatorie
acquisite. Come si è già visto, in base ai tabulati delle conversazioni telefoniche e come
ammesso dalle stesse difese, i primi contatti telefonici fra Burgio che stava in Piazza
Merani e Troiani che era nel cortile della Diaz relative allo spostamento delle bottiglie
incendiarie dal “magnum” al cortile risalgono alla mezzanotte e mezza circa; ed infatti alle
ore 00.41.29 inizia il filmato ove è ripreso Luperi con il sacchetto delle molotov in mano.
Prima di tale orario non esisteva alcuna bottiglia molotov, tanto meno all’interno della
scuola ove Mortola riferisce di averle viste in mano a due ignoti agenti. Successivamente
alle telefonate fra Burgio e Troiani è pacifico che il sacchetto con le molotov, passando di
mano in mano da Troiani agli altri funzionari sempre nel cortile, finisce a Luperi, e come si
evince dal filmato che riprende la scena del c.d. “conciliabolo”, alle ore 00.41.29 Luperi
maneggia tale sacchetto proprio di fronte a Mortola, che quindi non può ignorare la
circostanza. Tale fatto oggettivamente riscontrato esclude che Mortola possa aver detto a
due ignoti agenti di sistemare le molotov sul telo nero, che sarà sistemato alle ore
00.44.49, ben dopo che Mortola ha visto il sacchetto in mano a Luperi.
Anche per Mortola, quindi, valgono le considerazioni sopra svolte circa la consapevolezza
di affermare il falso sottoscrivendo la Comunicazione di notizia di reato ed il verbale di
arresto attestanti la localizzazione delle molotov all’interno della scuola; e, quindi, la
consapevolezza di accusare falsamente tutti gli arrestati per i reati loro addebitati sulla
base della detenzione collettiva di tali ordigni incendiari.
LUPERI
Il Dott. Luperi, dopo aver mentito circa il proprio contatto con le bottiglie molotov nel
verbale di SIT del 31/07/2001 (confermato nel successivo interrogatorio) sostenendo
riguardo alle armi improprie “non ho assistito al loro rinvenimento”, e nell’interrogatorio del
12/06/2002 sostenendo “Ho visto le due molotov conservate in un sacchetto di plastica;
non ricordo chi avesse in mano il sacchetto e non so dove le avessero trovate”, messo di
fronte all’evidenza del video Rep. 199, min. 8,55 nell’interrogatorio del 07/07/2003
ammette di aver visto le molotov per la prima volta nel contesto ripreso nel predetto
filmato, e poi di averle riviste una seconda volta sul telo nero insieme con gli altri reperti.
Quanto al primo contatto sostiene di aver appreso da Mortola il ritrovamento delle molotov
all’interno della scuola ad opera di personale del Reparto Mobile, anche se ammette di
aver ricevuto il sacchetto da Caldarozzi. Poi sostiene di essersi ritrovato solo e di aver
chiamato la Mengoni alla quale avrebbe affidato il sacchetto. Conferma che il gruppo di
funzionari ripresi nel filmato parlò del sacchetto con le molotov.
Sono smentite da circostanze obiettive le seguenti affermazioni di Luperi:
di aver appreso da Mortola del ritrovamento delle molotov all’interno della scuola, perché
Mortola, come visto, sostiene tutt’altra tesi incompatibile; inoltre la ricezione del sacchetto
dalle mani di Caldarozzi è incompatibile con tale assunto difensivo, per di più senza
spiegazione di come le molotov sarebbero arrivate a costui;
che il gruppetto si sarebbe sciolto ed egli si sarebbe trovato da solo, perché il filmato
mostra con continuità la presenza dei protagonisti fino alla stesura del telo nero.
Secondariamente è del tutto inattendibile la vicenda che vede coinvolta la Dott.ssa
Mengoni. Da un lato, continuando il Luperi ad avere la presenza intorno a sé degli altri
funzionari addetti alla perquisizione, non si vede perché egli avrebbe dovuto chiamare
dall’esterno la Mengoni per affidarle l’incarico di custodire quei pericolosi reperti, senza
ulteriore spiegazione su come intendeva che si dovesse provvedere a tale custodia.
Dall’altro lato il fantasioso racconto riferito dalla Mengoni non presenta il minimo margine
di credibilità (lo stesso Tribunale ha riconosciuto che “Tali dichiarazioni possono in effetti
apparire imprecise e forse anche in parte illogiche”.) Ella sostiene di aver avuto l’incarico
dal Luperi di custodirle ma non è in grado di dire in qual modo avrebbe inteso portarlo a
termine; malgrado sia consapevole che all’interno della scuola vi sono colleghi che stanno
eseguendo una perquisizione e che le bottiglie andranno unite agli altri reperti sequestrati,
persa d’animo perché non vede più i suoi tre colleghi (e non si vede come tale fatto
potesse incidere sulla custodia dei reperti) pensa di chiamare un collega di Napoli
dall’esterno da lei conosciuto ma del quale guarda caso non ricorda il nome (ed i tentativi
di identificarlo fra il personale proveniente da Napoli non hanno sortito effetto alcuno non
risultando neppure negli elenchi dei presenti). Non solo, ma trascurando inspiegabilmente
il compito primario di provvedere alla custodia degli oggetti pericolosi per mettersi alla
ricerca dei colleghi, lascia in un atrio non meglio specificato all’interno della scuola il
napoletano e le molotov, che immancabilmente spariscono nella di lei assenza. Alla totale
inverosimiglianza di tale racconto si deve aggiungere che l’assunto della Mengoni di aver
poi rivisto le bottiglie già posate sul telo nero contrasta con la deposizione del Dott. Pifferi,
incaricato della catalogazione dei reperti, il quale ha riferito di aver provveduto con l’aiuto
proprio della Mengoni a stendere il telo.
Collegando il racconto della Mengoni con quello di Luperi emerge l’ulteriore inspiegabile
incongruenza che, trovandosi i due nuovamente accanto di fronte alle bottiglie molotov
posate sul telo, Luperi, senza mostrare alcuno stupore di fronte a tale situazione, non
chiede conto alcuno alla Mengoni di come potesse pensare in tal modo di aver adempiuto
all’incarico di mettere in sicurezza le bottiglie incendiarie.
La realtà che balza evidente dalle numerose e gravi contraddizioni ed incongruenze di cui
sopra è che la comparsa della Mengoni e la sua apparente incolpevole perdita di contatto
con le molotov sono funzionali a spezzare la catena che lega i funzionari che si sono
occupati del sacchetto con gli ordigni, ed in particolare Luperi, con la finale comparsa
delle molotov fra i reperti sequestrati come oggetti rinvenuti all’interno della scuola Pertini.
La condotta dei partecipanti al c.d. “conciliabolo” può essere agevolmente ricostruita
tenendo conto delle seguenti circostanze:
- le false dichiarazioni da ciascuno rese circa il proprio ruolo;
- il fatto che pacificamente i predetti in quella occasione hanno discusso e parlato delle
molotov (ammissione di Luperi);
- la non credibilità del disinteresse che ciascuno avrebbe manifestato circa le modalità
ed il luogo di ritrovamento delle molotov, omettendo di chiedere informazioni al riguardo;
- la consapevolezza, per essere entrati nella scuola, che le molotov non erano state
trovate all’interno della stessa. Tale ultima considerazione vale anche per Luperi e Gratteri
che sono ripresi mentre entrano nella scuola alle ore 00.03 – secondo la consulenza delle
parti civili - ,quindi mentre l’operazione era nel pieno svolgimento: risultando così
confermate anche le deposizioni delle parti offese che li hanno riconosciuti, (Valeria
Bruschi all’udienza del 17/11/2005 ha riconosciuto Luperi, e Thomas Albrecht ha descritto
un funzionario con giacca, camicia bianca, con la barba e che indossava un casco, che
corrisponde in pieno a Gratteri –dichiarazioni rese all’udienza del 17/11/2005, non riportate
nella sentenza di primo grado). Del resto Luperi nelle dichiarazioni spontanee rese al
dibattimento ha ammesso di essere entrato nell’edificio al pian terreno e al primo piano e
di aver visto i feriti a terra;
- l’inesistenza di alcuna fonte di conoscenza che avesse in qualche modo collegato le
molotov all’interno della scuola, se non le presunte dichiarazioni di Mortola, della cui non
rispondenza al vero si è detto, e che non possono essere prese in considerazione quale
consapevole inganno perpetrato da Mortola ai danni degli altri vertici apicali presenti in
loco, Luperi in testa, perché presupporrebbe l’accordo ingannatorio con Troiani, del quale
non vi è il minimo riscontro;
- la circostanza, riferita dal teste Fiorentino, secondo la quale Luperi gli disse di aver
consegnato le molotov ad un operatore della Polizia scientifica.
Tutto converge in modo univoco e convincente ad indicare che i protagonisti del
“conciliabolo”, ben consapevoli che le molotov non provenivano dall’interno della scuola,
decisero che tali ordigni potevano essere utilizzati come reperto principe a conferma della
giusta intuizione di eseguire la perquisizione ex art. 41 TULPS nella scuola Pertini, e
quindi come elemento decisivo per poter procedere all’arresto di tutti i presenti con
l’accusa associativa finalizzata alla devastazione e al saccheggio.
La circostanza, sottolineata da alcune difese, secondo la quale in quel momento la
decisione di procedere agli arresti era già stata assunta (come emerge dalla già intercorsa
telefonata fra Andreassi e Agnoletto nella quale il primo, alle rimostranze del seocondo,
riferisce che la decisione di procedere agli arresti era già stata assunta a Roma e non si
poteva fare nulla), non è significativa della inutilità di architettare la falsa vicenda delle
molotov. Al contrario, proprio la confermata strategia di procedere agli arresti, concretata
nella decisione già assunta e irrevocabile, costituiva ulteriore pressione per i funzionari ed
i vertici presenti per trovare una giustificazione apparente alla decisione. Ed il ricorso fino
a quel momento alla sola accusa di resistenza, secondo quanto Canterini ed i suoi uomini
cominciavano a sostenere, appariva evidentente troppo poco per giustificare un arresto di
massa. Ecco allora che le molotov, del cui ritrovamento nella conferenza stampa
improvvisata Sgalla non fa ancora menzione, divengono la prova principe non solo della
fondatezza del sospetto che aveva condotto alla perquisizione ex art. 41 TULPS, ma
anche dell’ipotesi di reato associativa che consentiva l’arresto indiscriminato di tutti.
La conclusione cui è pervenuto il Tribunale di ritenere responsabile il solo Troiani (in quella
sede in concorso con l’autista Burgio) non è plausibile. Se il solo Troiani fosse stato
l’artefice della falsa introduzione delle molotov nella scuola, la sua condotta risulterebbe
priva di qualsasi elementare logica: le bombe sarebbero state collocate direttamente
all’interno dell’edificio creando una situazione di apparenza credibile circa la imputabilità
della detenzione almeno ad alcuni dei soggetti presenti all’interno della scuola. Viceversa,
la consegna a mano e di persona degli ordigni ad un collega all’esterno dell’edificio si
prestava evidentemente al rischio concreto che il destinatario, lungi dal cadere
nell’inganno, potesse scoprire facilmente il tentativo di Troiani.
Né, d’altro canto, il riconoscimento della condotta concorsuale degli appartenenti al
conciliabolo è impedito dalla considerazione che l’input sarebbe stato fornito dall’iniziativa
autonoma di Troiani, del tutto imponderabile ed accidentale. La circostanza che per
l’evidente reticenza di tutti i protagonisti non sia stato possibile ricostruire nei minimi
dettagli la vicenda in tutte le sue fasi non vincola la ricostruzione dei fatti alla scarne e
contraddittorie tesi difensive, impedendo di valutare il complesso di elementi indizianti che,
come sopra visto, concorrono in modo grave ed univoco a fondare la conclusione sopra
vista. Del resto lo stesso Troiani ha riferito che, comunicata la presenza delle molotov sul
suo veicolo, sarebbe stato proprio Di Bernardini a dirgli di portarle nel cortile della Pertini,
per cui sussiste anche un concreto elemento che esclude l’iniziativa autonoma ed
occasionale del Troiani.
Come si è visto al Troiani è certamente imputabile il falso conseguente alla introduzione
surrettizia delle molotov all’interno della scuola e, benché non sia vero che si sia
allontanato subito ma in realtà sia rimasto in contatto con il gruppo del “conciliabolo”, viene
assolto dalla calunnia per insufficiente prova che abbia partecipato attivamente alla
discussione in quella sede intercorsa circa l’utilizzo delle molotov. Pertanto il collegamento
fra la condotta del Troiani e quelle degli altri coimputati del “conciliabolo” è ampiamente
provato con riferimento alla consapevolezza della provenienza delle molotov dall’esterno.
La successiva decisione collettiva di riferire la detenzione delle molotov a tutti gli arrestati
è, pertanto, compatibile con la condotta tenuta da Troiani, che ben può essere stato
richiesto della consegna in previsione dell’utilizzo illecito degli ordigni.
Anche la condotta processuale successiva di tutti gli imputati costituisce ulteriore
significativa conferma della loro concorsuale attività di illecita ideazione della calunnia
reale: se fossero stati ingannati, o, comunque, avessero inizialmente creduto in buona
fede che effettivamente le molotov erano presenti all’interno della scuola, non avrebbero
inanellato la lunga serie di false dichiarazioni e contraddittorie tesi difensive chiaramente
finalizzate solo a prendere le distanze da una situazione conosciuta come fonte di
personale responsabilità diretta.
In tale contesto deve essere inserita la condotta di Luperi, che gestisce materialmente il
reperto e ne predispone l’utilizzo con gli altri presenti. La discussione collettiva con il
sacchetto in mano ha avuto una sua concreta utilità nell’ottica degli operatori di Polizia ed
ha partorito la decisione di riferire la detenzione delle molotov, nella consapevolezza della
provenienza dall’esterno, a tutti gli arrestati. La conferma oggettiva di tale risoluzione
psicologica, che per i sottoscrittori degli atti trova ulteriore riscontro nella modalità di
redazione degli stessi, come argomentato in precedenza, per Luperi è ravvisabile, dopo la
manifestazione di soddisfazione per il ritrovamento esternata nei confronti del dott.
Fiorentino, nel fatto che egli abbia visto le molotov collocate insieme agli altri reperti sul
telo nero e che come tali sarebbero state riferite indistintamente a tutti gli occupanti, senza
alcun segno di stupore o richiesta di chiarimenti ai presenti. Lo ammette lo stesso Luperi
nelle dichiarazioni spontanee che quella era la prevista destinazione degli ordigni,
essendo per lui indifferente il luogo effettivo di ritrovamento: “dal mio punto di vista, che
queste bottiglie fossero state trovate dentro la scuola al quinto piano, al piano terra, su un
terrazzo o in un cortile, un cortile che, tra l’altro, era stato chiuso con la catena e che era
stato necessario sfondare il cancello, per me erano riferibili agli occupanti”. Certo
questa ammissione è stata fatta da Luperi sul presupposto che, secondo la sua versione
dei fatti finale coincidente con quella iniziale, egli non sapesse neppure perché si era
ritrovato con il sacchetto in mano e chi glielo avesse dato; ma la illogicità di tale versione
ed il contrasto con le emergenze obiettive dell’istruttoria (impossibilità che informazioni
sulle molotov gli siano state date da Mortola, oltre tutto senza coordinamento con la
consegna del sacchetto da parte di Caldarozzi) colora, evidentemente, la predetta
ammissione di ben diverso significato, e conferma la consapevolezza di attribuire la
detenzione delle molotov a tutti, malgrado la provenienza degli ordigni dall’esterno della
scuola, scelta operativa assunta alla presenza e unitamente a coloro che avrebbero
redatto e sottoscritto i relativi atti di P.G., Mortola, Di Bernardini e Caldarozzi, e quindi in
evidente concorso morale.
GRATTERI
Anche Gratteri, come da filmato di cui si è riferito sopra, compare nel “conciliabolo” davanti
a Luperi che tiene in mano il sacchetto con le molotov (alle 00.41.29., alle 00.41.33 per
indicare i momenti più salienti). La tesi sostenuta da Gratteri nell’interrogatorio del
29/06/2002 di aver visto le bottiglie tenute in mano senza sacchetto da ignoto personaggio
in borghese è, quindi, smentita dalla predetta prova documentale-rappresentativa. Gratteri
partecipa a pieno titolo alla gestione del reperto e alla decisione in quel contesto assunta
da tutti i partecipanti. Accanto alla falsa giustificazione circostanziale che di per sé
costituisce grave indizio di responsabilità, deve valutarsi anche per Gratteri la
inconsistenza dell’assunto di non essersi interessato per nulla dell’origine e delle modalità
di rinvenimento delle molotov, malgrado non solo abbia partecipato al c.d. “conciliabolo”,
ma abbia successivamente assistito alla esposizione delle molotov sul telo nero, quale
reperto frutto della perquisizione. Anche la sua condotta ha rafforzato la decisione assunta
in quella circostanza di falsamente indicare gli ordigni come ritrovati all’interno della scuola
e di riferirne la detenzione a tutti indistintamente i soggetti che si trovavano nell’edificio. In
particolare, per quanto riguarda l’imputazione di calunnia, è decisiva la condotta tenuta da
Gratteri con riferimento alla stesura degli atti, quale descritta dal coimputato Canterini
anche al dibattimento. Rileva in tal senso l’interessamento diretto ed immediato di Gratteri
nei confronti di Canterini consistito nel sollecitare la redazione della informativa al
Questore con la raccomandazione di far menzione degli atti di resistenza che le forze di
polizia avrebbero incontrato (tanto che lo stesso Canterini ha riferito tale episodio con una
certa stizza, reclamando la propria competenza ed esperienza professionale al riguardo
che rendevano superfluo tale interessamento); e successivamente, come si è appreso a
seguito delle contestazioni del P.M. e della finale conferma da parte di Canterini, la
consegna della relazione direttamente a Gratteri, che la chiese per leggerla prima di
trasmetterla al Questore al fine, riferito da Canterini, di confrontarne il contenuto con quello
di altre relazioni (passo dell’esame non riportato dalla sentenza di primo grado).
Reputa la Corte che tale diretto e penetrante controllo di Gratteri sul contenuto delle
relazioni da inviare al Questore, anche al fine di coordinarne il contenuto, con la precisa
richiesta di menzionare le condotte (come già visto) false di resistenza, sia prova lampante
del suo diretto coinvolgimento nella predisposizione del complessivo apparato
documentale artatamente predisposto a sostegno delle false accuse, necessario a fornire
almeno nell’immediatezza credibilità alla disastrosa operazione di polizia e giustificazione
degli indiscriminati arresti. Questa evidente condotta e il già menzionato fallimento
dell’alibi forniscono convincente e logica conferma che l’atteggiamento di presunta
indifferenza e distacco dall’episodio delle molotov vada in realtà letto come consapevole e
convinta adesione alla decisione assunta dal “conciliabolo” di utilizzare gli ordigni per
accusare falsamente gli arrestati.
.-.-.-.-.-
LE IMPUTAZIONI DI FALSO
Le circostanze di fatto oggetto di imputazione di falsa attestazione da parte degli imputati
possono essere ricapitolate nei seguenti termini:
1) “aver incontrato violenta resistenza da parte degli occupanti consistita in un fittissimo
lancio di pietre ed oggetti contundenti dalle finestre dell’istituto per impedire l’ingresso
delle forze di polizia”
2) “di aver incontrato resistenza opposta anche all’interno dell’istituto da parte degli
occupanti che ingaggiavano violente colluttazioni con gli agenti di polizia, armati di coltelli
ed armi improprie”;
contestate a
Luperi e Gratteri al capo A);
Caldarozzi Gilberto, Mortola Spartaco, Dominici Nando, Ferri Filippo, Ciccimarra Fabio, Di
Sarro Carlo, Mazzoni Massimo, Di Novi Davide e Cerchi Renzo al capo C) e Di Bernardini
al capo 1) nel Proc. Riunito N. 5045/05 R.G. TRIB;
Canterini Vincenzo al capo F);
Nucera Massimo al capo I) e Panzieri Murizio al capo M)
3) “che quanto rinvenuto all’interno dell’istituto e costituito da mazze, bastoni, picconi, assi,
spranghe ed arnesi da cantiere era stato utilizzato come arma impropria dagli stessi
occupanti, anche per commettere gli atti di resistenza sopra descritti e comunque indicato
nella disponibilità e possesso degli arrestati”;
4) “di aver rinvenuto due bottiglie incendiarie con innesco al piano terra dell’istituto
perquisito, vicino all’ingresso, in luogo visibile ed accessibile a tutti, così attribuendone la
disponibilità ed il possesso indistintamente a tutti gli occupanti l’edificio”;
contestate a
Luperi e Gratteri al capo A);
Caldarozzi Gilberto, Mortola Spartaco, Dominici Nando, Ferri Filippo, Ciccimarra Fabio, Di
Sarro Carlo, Mazzoni Massimo, Di Novi Davide e Cerchi Renzo al capo C) e Di Bernardini
al capo 1) nel Proc. Riunito N. 5045/05 R.G. TRIB;
5) “gli occupanti erano stati resi edotti della facoltà di farsi assistere da altre persone di
fiducia”
contestata ai sottoscrittori del verbale di perquisizione e sequestro al capo C) e a Di
Bernardini al capo 1) nel Proc. riunito N. 5045/05 R.G. TRIB;
6) “di essere stato attinto da ignoto aggressore con una coltellata vibrata all’altezza del
torace, che provocava lacerazioni alla giubba della divisa indossata e al corpetto protettivo
interno”
contestata a Nucera Massimo al capo I);
7) “di aver assistito ad un episodio in cui l’agente Nucera, entrato assieme a lui e ad altro
personale in una stanza posta al secondo piano dell’edificio in questione, “avanzava e
fronteggiava una persona munita di un oggetto, con il quale ingaggiava una colluttazione”,
ed inoltre che “a seguito dell’intervento dell’altro personale componente la squadra” tale
soggetto “veniva accompagnato nel punto di raccolta”, essendo successivamente venuto
a conoscenza che “il summenzionato giovane era munito di arma da taglio” con la quale
aveva posto in essere l’aggressione ai danni dell’agente”
contestata a Panzieri Maurizio al capo M);
8) “rinvenimento delle bottiglie incendiarie … all’interno della scuola perquisita o nelle
pertinenze della stessa”
contestata a Troiani Pietro nel Proc. riunito N. 1079/08 TRIB;
9) “aver proceduto alla perquisizione ex art. 41 TULPPSS dei locali della scuola Diaz sita in
Via Cesare Battisti ed al conseguente sequestro di armi, strumenti di offesa ed altro
materiale”
contestata a Gava Salvatore nel Proc. riunito N. 1079/08 TRIB.
Gli atti affetti dalle contestate falsità sono le relazioni di servizio di Canterini, Nucera e
Panzieri, il verbale d’arresto, il verbale di perquisizione e sequestro, e la comunicazione di
notizia di reato.
Che i predetti atti costituiscano atti pubblici non è dubitabile, neppure per le relazioni di
servizio, come anche recentemente riconosciuto dalla Corte di Cassazione (Sez. 5°, n.
38537 del 25/06/2009, Sez. 5, n. 8252 del 15/01/2010), trattandosi di documenti redatti da
pubblici ufficiali nello svolgimento di pubblica funzione giudiziaria, nei quali devono essere
attestati i fatti direttamente compiuti o percepiti dal pubblico ufficiale.
La falsità contestata è quella ideologica ex art. 479 c.p. e la attribuzione di responsabilità
si fonda sulla formazione e sottoscrizione degli atti per tutti gli imputati, tranne che per
Luperi e Gratteri, la cui condotta è configurata come concorso morale perché
“determinavano e inducevano gli Agenti ed Ufficiali di PG presenti” alle false attestazioni
sopra elencate, e per Troiani, la cui condotta concorsuale è ravvisata nella consegna degli
ordigni con le modalità viste in precedenza.
Occorre subito sgombrare il campo dal tema della possibile scriminante ex art. 51 c.p.
indicata con il brocardo “nemo tenetur se detegere”, invocata sul presupposto che le
eventuali falsità sarebbero dipese dalla necessità di evitare l’ammissione di responsabilità
per altri reati. Il costante orientamento della Corte di Cassazione esclude la ricorrenza di
tale scriminante argomentando che “la finalità dell'atto pubblico, da individuarsi nella
veridicità "erga omnes" di quanto attestato dal p.u., non può essere sacrificata all'interesse
del singolo di sottrarsi ai rigori della legge penale” (Cass. n. 8252/2010 cit., Sez. 5° n.
3557 del 31/10/2007).
Come anticipato nell’esposizione delle questioni preliminari, uno dei temi discussi in
relazione a questo capitolo del processo riguarda la avvenuta contestazione
dell’aggravante di cui al 2° comma dell’art. 476 c.p. relativo alla natura fidefacente degli
atti o delle parti di atti con riferimento alle circostanze sopra elencate ritenute affette da
falsità.
Come si è visto in precedenza la questione è dalla giurisprudenza rimessa alla
qualificazione giuridica dell’atto da parte del giudicante, sempre che nel capo di
imputazione lo stesso sia chiaramente identificato. Nel caso di specie non vi è dubbio sulla
esatta identificazione degli atti affetti da falsità, tecnicamente indicati con riferimento alla
loro qualificazione processuale.
Per quanto riguarda il criterio per identificare l’atto o la parte di atto munito di fede
privilegiata le parti hanno discusso con riferimento specifico ai fatti riportati nell’atto che
sono il frutto di percezione sensoriale del verbalizzante, richiamandosi dalla difesa
quell’orientamento della giurisprudenza della Corte di Cassazione civile secondo il quale in
tal caso, essendo la percezione per sua natura fallibile, la confutazione del fatto riferito dal
P.U. non avrebbe richiesto la proposizione di querela di falso, con ciò escludendosi la
natura di atto fidefacente ex art. 2700 c.c.; e, viceversa, richiamandosi da parte del
Procuratore della Repubblica il più recente orientamento sul punto sancito dalla Corte di
Cassazione a SSUU (n. 17355 del 21/07/2009) secondo il quale le circostanze attestate
come avvenute alla presenza del P.U., tranne che nell’ipotesi di oggettiva e irrisolvibile
contraddittorietà, sono contestabili solo mediante il giudizio di querela di falso, anche se
l’alterazione sia involontaria o accidentale (in quanto frutto, appunto, di erronea
percezione).
Le difese hanno pure rilevato che di tale nuovo orientamento della Corte di Cassazione,
risalente al luglio 2009, non si possa tenere conto per valutare se vi sia stata
contestazione in fatto dell’aggravante di cui al 2° comma dell’art. 476 c.p. attraverso i capi
d’imputazione contestati molto tempo prima del 2009, dovendo invece tale valutazione
compiersi alla luce della giurisprudenza allora dominante, che, come visto, escludeva la
fede privilegiata ai fatti oggetto di percezione sensoriale.
Occorre esaminare tale ultima questione che si presenta preliminare.
La Corte ritiene che il criterio di valutazione della natura fidefacente della attestazione del
P.U. relativa ai fatti avvenuti in sua presenza nel periodo anteriore alla citata pronuncia
della Cassazione a SSUU non fosse quello perorato dalla difesa.
Sulla ovvia considerazione che ogni fatto avvenuto alla presenza del P.U è
necessariamente oggetto della sua percezione sensoriale, la altrettanto ovvia fallibilità
naturale di qualunque processo di percezione sensoriale porterebbe a privare sempre
della fede privilegiata qualsiasi attestazione di fatti avvenuti alla presenza del P.U., ma che
questo non fosse certamente l’orientamento della giurisprudenza anche in passato si
evince proprio dalla ricostruzione dei precedenti analizzata da SSUU del 2009. In
particolare, e con riferimento alla specifica fattispecie sulla quale la Cassazione si è
pronunciata (verbali di contestazione di infrazioni stradali in base ai fatti che l’agente
attesta di aver visto) il quadro interpretativo generale era dato dalla pronuncia anch’essa a
SSUU 12545/1992 secondo la quale, per quanto qui interessa, “L’efficacia di prova legale
del verbale non può estendersi alle valutazioni espresse dal pubblico ufficiale ed alla
menzione di fatti avvenuti in sua presenza, che possono risolverei in apprezzamenti
personali, perché mediati attraverso la occasionale percezione sensoriale di accadimenti,
che si svolgono così repentinamente da non potersi verificare e controllare secondo un
metro obiettivo, senza alcun margine di apprezzamento”.
Come risulta chiaro dal predetto principio, pertanto, solo nelle ipotesi in cui, per le
particolari caratteristiche di repentinità del processo di percezione, la rappresentazione
che il P.U. si forma del fatto avvenuto in sua presenza è suscettibile di ampio margine di
apprezzamento personale per l’impossibilità di verifica oggettiva, veniva meno secondo
quell’orientamento la fede privilegiata dell’attestazione. Come è altrettanto ovvio
l’insussistenza di precisi confini di operatività di tale criterio ha condotto nel tempo a
pronunce che hanno eroso l’ambito della fidefacenza estendendo l’area della influenza
dell’apprezzamento personale del fatto. Ed è a questa “deriva” che ha inteso porre rimedio
la recente pronuncia a SSUU del 2009.
In ogni caso il criterio operativo che si era dato la giurisprudenza consisteva nell’escludere
la fede privilegiata solo a quei fatti che potevano costituire oggetto “di apprezzamento
personale perché mediati dall'occasionale percezione sensoriale di accadimenti che si
svolgono così repentinamente da non potersi verificare e controllare secondo un metro
obiettivo” (ancora da ultimo Cass. Sez. 2, Sentenza n. 25842 del 27/10/2008 in perfetta
aderenza a SSUU del 1992). È su tale parametro, pertanto, che la Corte ritiene nella
fattispecie in esame ritualmente contestata la aggravante di cui al 2° comma dell’art. 476
c.p. perché, come risulterà dall’analisi delle singole circostanze oggetto di contestazione di
falso, tranne che per la prima ipotesi (“fittissimo lancio di oggetti”), negli altri casi non si
tratta di fatti che sarebbero stati percepiti in poche frazioni di secondo e come tali
altamente passibili di errore percettivo.
Esaminando le singole ipotesi di falsità, la Corte osserva:
1) “aver incontrato violenta resistenza da parte degli occupanti consistita in un fittissimo
lancio di pietre ed oggetti contundenti dalle finestre dell’istituto per impedire l’ingresso
delle forze di polizia”
Come anticipato, sul presupposto che anche l’appellante Procuratore Generale ammette
che qualche sporadico oggetto è stato lanciato, o comunque, è caduto nel cortile della
Pertini mentre ivi stazionavano gli operatori prima dello sfondamento del portone
principale, l’aggettivazione “fittissimo” che integra il nucleo fondamentale di tale falsità
costituisce certamente un apprezzamento personale, per sua natura insuscettibile anche a
posteriori di verifica oggettiva (non esistono parametri tecnico scientifici per verificare il
grado di intensità di caduta degli oggetti ai quali corrisponda una altrettanto precisa
aggettivazione). Pertanto, seppure, come già si è analizzato in precedenza, l’aggettivo
“fittissimo” costituisce certamente una iperbole ingiustificata strumentalmente adottata per
tentare di giustificare le successive violenze compiute dagli operatori di polizia, tuttavia
tale falsità non è riferibile ad attività fidefacente, risolvendosi piuttosto in un giudizio
valutativo, che come tale è sempre stato escluso dal novero delle attestazioni fidefacenti.
2) “di aver incontrato resistenza opposta anche all’interno dell’istituto da parte degli
occupanti che ingaggiavano violente colluttazioni con gli agenti di polizia, armati di coltelli
ed armi improprie”
L’accadimento così descritto sfugge ad ogni possibile connotazione di repentinità e non si
presenta come frutto di apprezzamento personale opinabile. La condotta addebitata ai
presenti viene descritta come generalizzata e tenuta per un apprezzabile lasso di tempo,
così eclatante da comportare la reazione difensiva violenta degli operatori e le gravi
conseguenza lesive dell’integrità fisica di moltissimi soggetti; il possesso di armi improprie
e di coltelli non può essere considerato frutto di una percezione repentina e sfuggente. Tali
fatti descritti come avvenuti alla presenza dei verbalizzanti sottoscrittori degli atti sono,
pertanto, connotati da fede privilegiata.
Esaminando il merito della contestazione, osserva la Corte che la falsità delle predette
circostanze è già stata rilevata dallo stesso Tribunale con riferimento al capo F) a carico di
Canterini. La valutazione non può che essere condivisa dalla Corte, con la precisazione,
peraltro, che i margini di dubbio sollevati dal primo giudice sono del tutto inesistenti. Non
solo l’episodio dell’accoltellamento di Nucera è falso, come già argomentato, ma anche gli
episodi di resistenza genericamente riferiti nelle relazioni di servizio sono falsi. Come già
osservato si tratta di atti predisposti a richiesta di Canterini dopo alcuni giorni dai fatti
quando ormai le polemiche sulle vicende della Diaz erano assurte agli onori della cronaca;
addirittura il prefetto Micalizio, incaricato della inchiesta amministrativa, si era rifiutato di
ricevere tali relazioni per l’evidente alterazione dei fatti in chiara funzione difensiva
(verbale di s.i.t. del 29/08/03). Quanto ai 17 referti medici sulle lesioni riportate dai poliziotti
e richiamati dal Tribunale, la irrilevanza di fronte al bilancio complessivo degli ottantasette
feriti su novantatrè arrestati che ha condotto all’ossimoro della “colluttazione unilaterale”
descritta dall’imputato Fournier, è confermata dalle indagini svolte che hanno consentito di
appurare che tali certificati, rilasciati dal Centro Medico della Polizia, e sollecitati da
Gratteri a Canterini, in tre casi si riferiscono a lesioni subite nello sfondamento del portone
(lesioni riportate dagli agenti del Reparto Mobile Marra, Finocchio e Castagna), in due casi
si riferiscono a lesioni accidentali riportate da agenti della Squadra Mobile di Napoli, negli
altri casi attestano lesioni lievissime (traumi contusivi, distorsioni al dorso della mano, alle
dita, alla coscia e alle caviglie) che sono troppo blande per essere state causate da
violenta reazione a mano armata come descritta nella relazione di Canterini (“armati con
spranghe, bastoni e quanto altro”), nella CNR (“gli occupanti ingaggiavano violente
colluttazioni utilizzando anche armi da taglio ed improprie…gran parte degli occupanti
affrontava gli operatori di polizia con bastoni, assi di legno ed oggetti metallici”), nel
verbale di arresto (“dapprima i giovani cercavano di resistere ingaggiando colluttazioni…
l’attiva resistenza posta in essere dai citati giovani veniva superato solo grazie alla
presenza di un nutrito contingente di operatori”) e nel verbale di perquisizione (“vinta la
resistenza degli occupanti”).
Occorre ancora rilevare come le relazioni di servizio siano assolutamente generiche in
ordine alle presunte resistenze, mancando le descrizioni specifiche delle condotte, degli
aggressori e delle modalità di utilizzo delle armi: anche tale genericità è indizio significativo
di falsità.
Persino gli stessi imputati nel cercare di giustificare la propria condotta in ordine
all’affermazione delle resistenze incontrare hanno ammesso di non averne avuto
conoscenza diretta. Nell’esame dibattimentale Canterini afferma che “pur non avendo
avuto visione di azioni dirette, sono cose che ho potuto constatare; è frutto di una logica
deduzione, non di visione diretta. Sono giunto a questa deduzione perché abbiamo
incontrato resistenza, avendo dovuto superare cancelli chiusi e accessi sbarrati. Quando
sono entrato dopo i miei uomini, dopo aver visto e sentito cadere roba dall’alto, ho visto da
una parte spranghe e oggetti contundenti tra cui una mazza, ho visto persone ferite
addossate al muro e alcuni dei miei contusi; ho dedotto quindi logicamente che vi fosse
stato contatto fisico”. Nel suo esame dibattimentale Fournier afferma “vi era buio, e
guardando meglio vidi che non si trattava di vere colluttazioni, ma vi erano quattro o
cinque poliziotti che stavano infierendo sui feriti”. Nelle spontanee dichiarazioni l’imputato
Stranieri Pietro riferisce di violenze perpetrate da altri poliziotti, ma non di resistenze da
parte degli occupanti. Nelle spontanee dichiarazioni l’imputato Zaccaria Emiliano non
riferisce alcun tipo di colluttazioni. Nelle spontanee dichiarazioni l’imputato Cenni Angelo
riferisce de relato presunte contusioni subite dai suoi uomini, che per ciò solo avrebbe
invitato ad uscire dalla scuola (circostanza poco credibile perché non corredata da
specifiche indicazioni sulla identità degli uomini feriti). Nelle spontanee dichiarazioni
l’imputato Ledoti Fabrizio ha riferito di essere stato aggredito con un manico di piccone e
di aver dovuto ricorrere al “tonfa” (o “baton”) per “bloccarlo” e poter proseguire (ma
l’episodio è generico e resta non chiarito come sia avvenuto il “bloccaggio”
dell’antagonista che ha consentito al Ledoti di proseguire). Nelle spontanee dichiarazioni
l’imputato Luperi non riferisce di aver constatato alcuna resistenza, anzi conferma di
essersi allarmato per l’elevato numero di feriti. Nelle spontanee dichiarazioni l’imputato
Dominici Nando riferisce di non aver assistito ad alcuna resistenza e di aver firmato il
verbale di arresto fidandosi dei colleghi e sul presupposto che Caldarozzi gli aveva
comunicato la decisione di procedere agli arresti di tutti i fermati. Nelle spontanee
dichiarazioni l’imputato Lucaroni Carlo ha riferito “nessuno degli occupanti fece resistenza
nei miei confronti ed io non usai in alcun modo il tonfa”. Nelle spontanee dichiarazioni
l’imputato Compagnone Vincenzo non ha riferito alcuna resistenza. Nelle spontanee
dichiarazioni l’imputato Tucci Ciro ha genericamente riferito di colluttazioni fra suoi colleghi
e giovani, ma non di atti di resistenza.
Il complessivo quadro che emerge da tutti gli elementi di prova raccolti nel corso del
dibattimento di primo grado conduce chiaramente ad escludere che vi siano stati atti di
resistenza, tanto meno con utilizzo di armi. Giova rilevare che il sequestro di coltelli e altri
arnesi da lavoro di per sé non è assolutamente indicativo di nulla, in assenza della ben
che minima descrizione di un loro utilizzo improprio quali armi.
3) “che quanto rinvenuto all’interno dell’istituto e costituito da mazze, bastoni, picconi, assi,
spranghe ed arnesi da cantiere era stato utilizzato come arma impropria dagli stessi
occupanti, anche per commettere gli atti di resistenza sopra descritti e comunque indicato
nella disponibilità e possesso degli arrestati”;
Anche tale fatto così descritto sfugge ad ogni possibile connotazione di repentinità e non si
presenta come frutto di apprezzamento personale opinabile. L’utilizzo di strumenti quali
arma impropria per commettere atti di resistenza non può ricondursi alle percezioni
repentine frutto di incerta valutazione soggettiva: trattasi di condotta duratura nel tempo
che, così come descritta, implica la visione diretta di fatti chiari nella loro oggettività, quali il
possesso e l’uso di mazze, bastoni, picconi ecc. per commettere atti violenti in danno degli
operatori di polizia. Nessun dubbio, pertanto, che tale fatto al quale il P.U. afferma di aver
assistito gode di fede privilegiata.
Quanto all’oggettiva esistenza della falsità, vale al proposito quanto osservato da ultimo
con riferimento alla circostanza precedente. Non vi è alcun riscontro negli atti redatti e
nelle dichiarazioni rese dagli imputati di alcuna specifica condotta che consenta di
attribuire ad alcuno degli arrestati la detenzione e l’uso degli strumenti indicati, e la
attribuzione indifferenziata a tutti di tali oggetti è di per sé chiaro indice di pretestuosa e
infondata generalizzazione in spregio al fondamentale principio della personalità della
responsabilità penale, che deve essere ben noto ai redattori degli atti di polizia giudiziaria.
4) “di aver rinvenuto due bottiglie incendiarie con innesco al piano terra dell’istituto
perquisito, vicino all’ingresso, in luogo visibile ed accessibile a tutti, così attribuendone la
disponibilità ed il possesso indistintamente a tutti gli occupanti l’edificio”
Anche tale fatto non può essere qualificato percezione sensoriale repentina e come tale
fallace. L’affermazione di aver constatato la presenza di due ordigni incendiari in luogo
visibile e accessibile a tutti, oltre che essere nella sua oggettività insospettabile di
travisamento percettivo, è connotata di per sé di caratteristica (facile visibilità a tutti) che
esclude la percezione repentina. L’affermazione sicuramente gode di fede privilegiata.
Nel merito il capitolo delle bombe molotov è già stato ampiamente esaminato e, del resto,
l’oggettiva falsità dell’attestazione circa la loro presenza all’interno della scuola Pertini e la
riferibilità a tutti gli arrestati, in tale detenzioni uniti dal vincolo associativo a delinquere,
non è neppure contestata dagli imputati.
5) “gli occupanti erano stati resi edotti della facoltà di farsi assistere da altre persone di
fiducia”
In tal caso non si tratta neppure di attestazione di fatto accaduto alla presenza del P.U.,
ma di azione direttamente compiuta dal verbalizzante, per cui non si pone alcun problema
di percezione sensoriale del fatto. L’affermazione da parte del P.U. di aver compiuto una
determinata azione è sicuramente dotata di fede privilegiata.
Nel merito la falsità oggettiva della circostanza è pacifica, e come tale ammessa da tutti gli
imputati e riconosciuta dal Tribunale. Il primo giudice ha escluso la rilevanza penale del
fatto argomentando che nel caso di specie, trattandosi di perquisizione ad iniziativa, non
era obbligatorio per legge l’avviso in questione, che sarebbe stato inserito nel corpo del
verbale di perquisizione per leggerezza o disattenzione.
Tale argomentazione non è condivisibile perché errata in diritto e, in ogni caso, incoerente.
Il Tribunale ha citato a sostegno della sua tesi una massima giurisprudenziale di pronuncia
non pubblicata, che pare confondere l’avviso all’indagato da quello al difensore. Viceversa
la costante giurisprudenza in tema di perquisizioni ad iniziativa della P.G. riconosce che ai
sensi dell’art. 114 disp. att. c.p.p. e art. 356 c.p.p. è dovuto nei confronti della persona
sottoposta ad indagini l’avviso della facoltà di farsi assistere da difensore di fiducia (arg. da
Cass. pen. Sez. 2, Sentenza n. 40833 del 2007 che in caso di sequestro ad iniziativa poi
convalidato dal P.M. ha sancito “questa S.C. è costante nel ritenere che la violazione
dell'obbligo, da parte della polizia giudiziaria, di avvertire l'indagato della facoltà di farsi
assistere da un difensore di fiducia (art. 114 disp. att. c.p.p.) nel corso di una perquisizione
o sequestro integra una nullità generale a regime intermedio”, e da Sez. 4, Sentenza n.
16094 del 2009 ove si presuppone la operatività del disposto dell’art. 114 disp. att. c.p.p. in
caso di perquisizione conseguente ad arresto in flagranza).
Ma in ogni caso, venendo al secondo profilo, l’argomentazione è illogica perché la falsità
dell’affermazione non dipende dalla doverosità o meno dell’avviso, ma dal fatto che esso
sia stato effettivamente dato o meno, essendo evidente che la falsità non è esclusa
dall’errore di diritto che eventualmente i verbalizzanti abbiano compiuto circa la necessità
di un determinato adempimento procedurale.
Consegue che, essendo pacifico (in quanto confermato da tutte le parti offese e non
contestato dagli imputati) che l’avviso in questione non venne dato, la contraria
affermazione contenuta nel verbale di perquisizione è falsa.
E non è neppure condivisibile la giustificazione fornita dal Tribunale che imputa la falsità a
leggerezza e disattenzione dei verbalizzanti: la leggerezza e la disattenzione inducono a
trascurare fatti rilevanti, non ad affermare fatti inesistenti. Nel verbale di perquisizione e
sequestro in esame la specificazione dell’avvenuto avviso agli indagati è stata
scientemente inserita per confezionare l’atto nel modo più conforme possibile alle regole
giuridiche che lo disciplinano, con la stessa studiata cura con la quale nella comunicazione
di notizia di reato i verbalizzanti si sono premurati di evidenziare che la forza usata dagli
operatori di polizia era stata “di proporzione adeguata all’intensità dell’offesa” posta in
essere dai facinorosi resistenti, con ciò cautelandosi circa le preconizzate contestazioni di
uso eccessivo della forza, evidente già al solo esame del numero dei feriti e della gravità
delle lesioni inferte.
6) “di essere stato attinto da ignoto aggressore con una coltellata vibrata all’altezza del
torace, che provocava lacerazioni alla giubba della divisa indossata e al corpetto protettivo
interno”
Trattasi di articolata e complessa vicenda descritta dal Nucera con riferimento a più fasi
successive (aggressione da parte dello sconosciuto, uno o due colpi ricevuti al petto,
ritrovamento del coltello, scoperta della lacerazione al giubbotto) che sfugge a qualsiasi
possibile tentativo di considerarla conseguenza di percezione sensoriale repentina, come
tale fallace. Nessun dubbio che anche in questo caso ci si trovi di fronte ad una serie di
affermazioni dotate di fede privilegiata.
Quanto alla falsità, se ne è ampiamente argomentato in precedenza, e a tale capitolo si
rimanda.
7) “di aver assistito ad un episodio in cui l’agente Nucera, entrato assieme a lui e ad altro
personale in una stanza posta al secondo piano dell’edificio in questione, “avanzava e
fronteggiava una persona munita di un oggetto, con il quale ingaggiava una colluttazione”,
ed inoltre che “a seguito dell’intervento dell’altro personale componente la squadra” tale
soggetto “veniva accompagnato nel punto di raccolta”, essendo successivamente venuto
a conoscenza che “il summenzionato giovane era munito di arma da taglio” con la quale
aveva posto in essere l’aggressione ai danni dell’agente”
Nella sua relazione di servizio datata 22/07/2001 l’Ispettore Capo Panzieri ha riferito di
aver proceduto personalmente insieme con Nucera allo sfondamento della porta chiusa di
un’aula, di aver visto una persona aggredire il collega tenendo qualcosa in mano, che
l’aggressore era stato fermato e accompagnato al punto di raccolta, e che gli era stato
riferito che l’oggetto impugnato dall’aggressore era un coltello.
Anche in questo caso valgono le considerazioni precedenti circa la specificità di diverse
fasi dell’azione, alcune compiute direttamente dal Panzieri (sfondamento della porta
insieme con Nucera, ricezione della comunicazione essersi trattato di coltello) come tali
estranee a processo percettivo, ed altre percepite, per le quali non pare proprio sussista la
repentinità (fermo e accompagnamento dell’aggressore al punto di raccolta). Anche in tal
caso sussiste la fede privilegiata. Circa la falsità si richiamano le ampie argomentazioni
svolte nella ricostruzione dell’episodio dell’aggressione a Nucera.
8) “rinvenimento delle bottiglie incendiarie … all’interno della scuola perquisita o nelle
pertinenze della stessa”
L’oggetto della contestazione a Troiani è speculare a quanto già esaminato al punto 4).
9) “aver proceduto alla perquisizione ex art. 41 TULPPSS dei locali della scuola Diaz sita in
Via Cesare Battisti ed al conseguente sequestro di armi, strumenti di offesa ed altro
materiale”
Trattasi all’evidenza di contestazione che si riferisce all’affermazione falsa da parte di
Gava di aver compiuto un determinato atto procedurale; anche in tal caso è estraneo il
tema della percezione sensoriale perché a Gava è contestato di aver falsamente attestato
la propria partecipazione diretta alla perquisizione e al sequestro. Nessun dubbio sulla
natura fidefacente dell’atto. Quanto alla falsità oggettiva dell’affermazione, essa è pacifica
nella sua materialità, posto che Gava non è neppure entrato nella scuola Pertini,
essendosi occupato della antistante scuola Pascoli, e sostiene di aver firmato il predetto
verbale solo per aver compiuto qualche identificazione degli arrestati.
Può pertanto concludersi su questo primo punto che, a parte la attestazione del “lancio
fittissimo”, tutte le altre falsità contestate implicano la contestazione anche dell’aggravante
di cui al 2° comma dell’art. 476 c.p. trattandosi di condotte tenute direttamente dai PPUU o
di fatti che gli stessi hanno attestato essere avvenuti in loro presenza, e dagli stessi
percepiti senza margini di opinabilità.
.-.-.-.-.-
Descritte le ipotesi di falso in atto fidefacente contestate in causa, e verificata la
sussistenza dal punto di vista oggettivo delle falsità, prima di procedere all’esame della
responsabilità degli imputati occorre affrontare un secondo tema di carattere generale,
relativo alla invocata legittimità della sottoscrizione dei verbali fidefacenti anche da parte di
chi non ha partecipato direttamente alle attività procedimentali che l’atto stesso
documenta, o per aver compiuto altre attività successive utili alla redazione dell’atto falso
(come la identificazione degli indagati) o per essersi fidati di quanto affermato da altri
colleghi, o per aver redatto solo in parte l’atto, lasciando che altri lo completassero nella
parte poi risultata falsa.
La peculiarità dei verbali di perquisizione e sequestro, e di arresto oggetto del presente
giudizio consiste innanzi tutto nella mancata indicazione nominativa dei verbalizzanti,
posto che gli atti esordiscono con la frase “noi sottoscritti Ufficiali ed Agenti di Polizia
Giudiziaria effettivi a…” seguita dalla indicazione dei rispettivi corpi di appartenenza, ma
senza specificazione delle generalità. Gli inquirenti hanno dovuto così investigare in base
alle firme di sottoscrizione, spesso mere sigle, con il risultato che uno dei firmatari del
verbale di arresto è rimasto ignoto (circostanza significativa secondo l’accusa pubblica
della mancata collaborazione nelle indagini da parte della Polizia, pur delegata dalla
Procura a investigare sui tragici fatti).
La legittimità della sottoscrizione da parte di chi non ha compiuto l’attività tipica consacrata
dal verbale è stata sostenuta con quattro argomentazioni:
1) l’art. 120 disp. att. c.p.p. al 1° comma stabilisce che “Agli adempimenti previsti dall’art. 386
c.p.p. possono provvedere anche ufficiali e agenti di polizia giudiziaria diversi da quelli
hanno eseguito l’arresto o il fermo”;
2) il codice di rito prevede e disciplina all’art. 383 l’arresto da parte del privato, cui segue la
redazione del verbale da parte dell’ufficiale di P.G. che, evidentemente, non ha proceduto
all’arresto;
3) l’identificazione degli indagati, in quanto presupposto necessario per la redazione del
verbale, è attività della quale deve darsi conto nel verbale, per cui la sottoscrizione di chi
ha provveduto a tale adempimento strumentale è legittima;
4) l’art. 479 c.p. sanziona come falso ideologico anche la condotta, descritta come ipotesi di
chiusura, della falsa attestazione di fatti diversi (da quelli compiuti dal P.U. o ai quali il P.U.
ha assistito) dei quali l’atto è destinato a provare la verità. Sotto tale profilo la
sottoscrizione ben può riferirsi alla assunzione di “paternità” dell’atto e di responsabilità
circa le decisioni assunte quali conseguenza degli aspetti valutativi (come quella tipica di
procedere all’arresto). Pertanto la sottoscrizione del verbale da parte di chi abbia appreso
de relato le circostanze oggetto della parte descrittiva sarebbe giustificata dalla
assunzione di responsabilità della parte valutativa e dispositiva dell’atto che consegue alla
analisi dei fatti.
La Corte ritiene che nessuna delle suddette argomentazioni sia fondata.
- Quanto alla prima, trattasi di evidente travisamento del significato della norma. L’art.
386 c.p.p prevede che successivamente all’arresto o al fermo la Polizia Giudiziaria compia
una serie di adempimenti esecutivi: informare il P.M., avvisare l’arrestato delle garanzie
difensive, avvisare il difensore, mettere a disposizione del P.M. l’arrestato, trasmettere il
verbale. L’art. 120 disp. att. c.p.p. prevede che tali adempimenti esecutivi successivi alla
redazione del verbale (che resta disciplinata dall’art. 357 c.p.p.) possono essere compiuti
anche da ufficiali e agenti di P.G. diversi da quelli che hanno proceduto all’arresto, per
evidenti ragioni di speditezza, ma non contempla certo la facoltà di redigere il verbale di
arresto in capo a soggetti diversi da quelli che hanno proceduto materialmente al
compimento dell’atto.
- Quanto alla fattispecie dell’arresto da parte di privato, il travisamento è ancora più
eclatante. La norma, nel disciplinare la facoltà di arresto da parte del privato, prevede che
il P.U. redige il verbale della consegna: in tale atto l’ufficiale attesta, con efficacia di fede
privilegiata, il fatto storico della presentazione del privato che gli consegna l’arrestato e il
fatto storico consistente nella relazione che il privato fa oralmente al P.U. per descrivere le
circostanze che l’hanno condotto ad eseguire l’arresto. Ma è evidente che il P.U. non può
attestare di aver proceduto direttamente lui all’arresto, assumendosi la paternità della
condotta tenuta dal privato.
- Quanto alla terza argomentazione, la stessa è smentita innanzi tutto proprio dalla
pronuncia resa dalla Corte di Cassazione nei confronti dell’imputato Gava, là ove ha
ritenuto che non ha alcun senso sostenere che per il solo fatto di aver proceduto alla
identificazione degli arrestati egli possa aver equivocato sulla natura e sul significato
dell’atto sottoscritto, cioè il verbale di perquisizione alla quale non aveva partecipato.
Come risulta evidente da tale argomentazione, ove la Corte avesse ritenuto che la
partecipazione ad atti successivi legittimi la sottoscrizione di atto precedente al quale non
si è preso parte, ne avrebbe dato atto nel caso al suo esame e non avrebbe argomentato
circa l’insostenibilità dell’equivoco del Gava sulla propria partecipazione alla perquisizione;
al contrario, risulta confermato che in tanto il P.U. può sottoscrivere l’atto, in quanto vi
abbia preso parte effettiva.
L’occasione è opportuna anche per confutare le tesi secondo le quali la sottoscrizione
degli atti da parte di chi non li ha compiuti sarebbe giustificata da prassi, o da fiducia
riposta in quanto accertato da altri colleghi. Quanto alla prassi, la prima considerazione
evidente è che non vi è traccia nel processo di alcun minimo indizio dell’esistenza di tale
prassi; al contrario la stessa è stata smentita in modo inequivocabile dal vice questore
Gallo Nicola (incaricato della stesura materiale degli atti insieme con Schettini) nell’esame
testimoniale del 18/04/2007 (“se uno firma un verbale è perché può inserire in quel
verbale qualcosa che ha percepito direttamente”). Ma certamente non esiste prassi che
scrimini tale condotta, come sancito dalla Corte di Cassazione che afferma invece come
“non può invocarsi a discolpa l’esistenza di prassi illegittimamente tollerate se non
promosse. In casi siffatti, invero non si può parlare di condotta colposa, giacché la colpa
consiste in una negligenza, nel senso che pur avendo adottato un sistema ed una
procedura corretta, l’agente incorra in errore dovuto a superficialità o in una imperizia, nel
senso per esempio che l’agente interpreti correttamente alcune disposizioni che regolano
la procedura” (Cass. Sez. 5° n. 10720 del 4/12/2007- 10/03/2008)
Quanto alla firma per fiducia sull’operato altrui, deve rilevarsi come sia assolutamente
illogico prevedere la facoltà di una sottoscrizione inutile e meramente aggiuntiva apposta
quasi con funzione notarile, come se la quantità di sottoscrizioni possa aumentare la
affidabilità di quanto attestato nell’atto. Ma anche per tale ipotesi la citata Cass. N. 10720
del 4/12/2007 afferma a chiare lettere che “Il pubblico ufficiale non può apporre firme al
buio senza incorrere in responsabilità, essendo suo preciso dovere adottare le procedure
idonee a garantire la piena conoscenza del contenuto degli atti che firma”.
L’ultima considerazione conclusiva sul punto è che, se anche per amor di accademia si
volesse dare ingresso alle suddette ipotesi legittimanti la sottoscrizione da parte di chi non
ha compiuto l’atto e non ha assistito agli accadimenti ivi attestati, sarebbe pur sempre
necessario che l’atto esplicitasse il ruolo svolto dal sottoscrittore “estraneo”, indicando per
ciascun firmatario nominativamente indicato a quale titolo egli sottoscriva pur non avendo
partecipato: ad esempio con l’indicazione di aver redatto altri diversi atti successivi (come
l’identificazione degli arrestati) o con l’indicazione della fonte dalla quale ha appreso il fatto
che intende “confermare”, o della parte materiale di atto compilata, poi completata da altri.
Nel caso di specie, viceversa, tutti i sottoscrittori si sono anonimamente indicati negli
incipit dei verbali come autori diretti di tutte le attività compiute e percettori degli
accadimenti ivi descritti, senza alcuna distinzione, per cui non vi è spazio alcuno per
accedere alle tesi difensive sopra viste.
- In ordine alla quarta argomentazione la Corte rileva che l’interpretazione dell’ultimo
inciso dell’art. 479 c.p. “comunque attesta falsamente fatti dei quali l’atto è destinato a
provare la verità” non è quella proposta dalla difesa. La tesi finisce per riferire la norma in
esame a ipotesi di manifestazione da parte del P.U. di valutazioni, come l’”assunzione di
paternità dell’atto”, che può significare solo la decisione di procedere all’attività ivi descritta
e compiuta da altri (perquisizione e sequestro), nonché la decisione di procedere ad atti
dispositivi (arresto) in base alla valutazione dei fatti emersi. Ma che tale area di condotta
sia estranea alla norma incriminatrice in esame è pacifico, essendo la falsità sempre
riferita a dichiarazioni di scienza (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 4545 del 17/01/1983 “Il reato
di falso ideologico che si realizza sia nella ipotesi che il pubblico ufficiale attesti
falsamente in atto pubblico fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, sia allorché il
privato attesti al pubblico ufficiale gli stessi fatti, presuppone che l'attestazione consista in
una affermazione o negazione di verità, e mai in una dichiarazione di volontà, e che il
dichiarante abbia l'obbligo giuridico dell'esposizione veritiera.”
La fattispecie si riferisce all’ipotesi nella quale il P.U. dolosamente faccia propria la falsità
riferita da un terzo su un fatto estraneo alla percezione del P.U. in quanto interno alla sfera
di conoscenza e disponibilità del terzo stesso, il quale abbia per legge o altra fonte
normativa l’obbligo di riferire al P.U. il vero, sì che l’atto predisposto da quest’ultimo sia
destinato a provare la verità. La norma, pertanto, non autorizza il P.U. a sottoscrivere atti
compiuti da altri. Se poi l’argomentazione in esame è volta a giustificare la sottoscrizione
non quale autore delle attività compiute o spettatore dei fatti accaduti in sua presenza, ma
come responsabile delle decisioni di carattere valutativo, vale la considerazione più sopra
svolta circa la assoluta indifferenziazione dei sottoscrittori, e la mancanza di specifica e
chiara indicazione dei ruoli, in tale ipotesi necessariamente diversi, assunti dagli ufficiali di
P.G. con le rispettive sottoscrizioni.
Giova infine ricordare che anche per gli atti a contenuto dispositivo, quali il verbale di
arresto, è ravvisabile la falsità ideologica con riferimento alla enunciazione dei fatti storici
indicati quali presupposto del giudizio che conduce alla disposizione finale.
.-.-.-.-.-.
Passando all’esame delle singole responsabilità, la Corte osserva:
1) POSIZIONE di LUPERI e GRATTERI
Si tratta dei due funzionari di rango più elevato nel novero degli imputati, che peraltro, in
ragione della carenza della qualifica di Ufficiali di PG non hanno firmato alcuno dei verbali
falsi.
Entrambi hanno cercato di sminuire i loro rispettivi ruoli e funzioni nella vicenda in esame,
ma sono stati smentiti dalle molteplici circostanze di segno contrario emerse nel processo.
Occorre a tal fine richiamare la testimonianza del pref Ansoino Andreassi illuminante sui
ruoli dei due imputati in esame. Ha riferito tale teste di aver ricevuto una telefonata dal
Capo della Polizia De Gennaro con la quale questi lo avvisava dell’arrivo a Genova del
Pref. La Barbera, che sarebbe venuto a Genova a dare una mano ad esso Andreassi (ud.
23/5/2007). La Barbera viene inviato a Genova con l’incarico formale di occuparsi dei
rapporti con le polizie straniere per sollecitare una collaborazione più rapida in relazione
ad arresti di stranieri coinvolti negli scontri. Ma è stato pacificamente acclarato che La
Barbera, arrivato a Genova nel tardo pomeriggio a manifestazione terminata, non si
occupò minimamente delle polizie straniere, e si installò, invece, nella sala operativa della
Questura portando con sé anche l’imputato Luperi – il suo vice – che venne distolto dalla
sala delle polizie straniere. La presenza di Luperi fin dall’inizio della vicenda e, come si
vedrà, per tutta la sua durata fino al termine, rende irrilevante il suo incarico formale di
Consigliere Ministeriale, a suo dire avente per oggetto solo attività di consulenza e non
compiti operativi, se non altro perché, come rilevato da molti presenti sul campo, la
funzione di Consigliere ministeriale non aveva alcun nesso con l’UCIGOS, diretto dal La
Barbera, del quale Luperi era vice.
Sempre dalla deposizione di Andreassi si apprende che in occasione dalla necessità di
procedere in forma energica ad una perquisizione con conseguenti risultati in termini di
arresti presso la scuola Paul Klee, la gestione della perquisizione venne tolta ad esso
Andreassi e affidata a Francesco Gratteri, all’epoca vice di Manganelli al Servizio Centrale
Operativo, fino a quel momento addetto ai servizi all’interno della zona rossa. Lo stesso
Gratteri nel suo interrogatorio del 29/6/2002 ha confermato la circostanza, riferendo di
esser stato lui a guidare l’operazione: “non era una perquisizione ma una passeggiata,
quella perquisizione si stava svolgendo male”.
Il teste Manganelli, all’epoca diretto superiore di Gratteri, (ud. 02/05/2007) ha riferito di
essere stato informato da Gratteri sull’operazione di perquisizione alla scuola Paul Klee.
Consegue che può ritenersi provato che l’imputato Gratteri viene, di fatto, messo a capo
delle operazioni di ordine pubblico, con conseguente passaggio in secondo piano della
figura del Pref. Ansoino Andreassi
Ancora il teste Andreassi in merito alla riunione presso la Questura allorché si decise
l’intervento alla scuola Diaz ha aggiunto che:
a) il Capo della Polizia, informato dell’imminente perquisizione, aveva deciso che La
Barbera doveva recarsi sul posto, così come l’addetto stampa della Polizia, Sgalla;
b) che Gratteri era andato alla Diaz su input del suo superiore gerarchico Dott. Manganelli;
è opportuno sottolineare che Gratteri a partire dall’operazione della scuola Paul Klee – per
espressa ammissione dello stesso Manganelli - durante le fasi cruciali di quella giornata è
stato sempre in contatto con il Ministero dell’Interno ed in particolare con gli uffici del
Servizio Centrale Operativo, come risulta dai tabulati del suo cellulare, che evidenziano
ben 19 contatti tra Gratteri ed il Ministero dell’Interno uffici dello S.C.O. tra le ore 20:02,30
e le ore 00:31,15;
c) Luperi era andato alla Diaz in qualità di vice di La Barbera;
Alla deposizione di Andreassi si accompagnano decisivi riscontri oggettivi.
Quanto a Gratteri la ricostruzione operata dalla consulenza delle parti civili ha provato che:
a) Dalle ore 00.24.52 alle ore 01.12.14 tredici frammenti video lo riprendono nel cortile
della scuola Pertini. Fra questi compare il frammento in cui agitando il “tonfa” verso
l’alto ordina di fermare i fuggitivi che erano riusciti a scappare dalla scuola tramite i
ponteggi, e quello che riprende il cosiddetto “conciliabolo” di funzionari con al centro
il sacchetto delle bottiglie molotov tra le mani del dott. Luperi.
b) E’ Gratteri che chiama il dott. Filocamo e gli impartisce l’ordine di repertare quanto
in sequestro (dep. Filocamo all’udienza 15/11/07);
c) Dalle ore 01.13.44 alle ore 01.51.50 vi sono 33 frammenti video che riprendono
Francesco Gratteri nei pressi del cancello dell’istituto scolastico o nelle immediate
vicinanze di questo all’interno del cortile oppure nella via Battisti. In quest’ultima
circostanza cinque frammenti video lo riprendono mentre parla con la stampa.
Anche questa circostanza appare del tutto significativa: il capo del servizio centrale
operativo della Polizia di Stato viene immediatamente contornato dai giornalisti che
lo riconoscono come un interlocutore idoneo a chiarire i termini dell’operazione ed
egli non si sottrae anzi discute a lungo con loro dei fatti.
d) è lui stesso che chiede a Canterini di predisporre una relazione sui fatti al Questore
Anche un altro documento acquisito agli atti del dibattimento illumina il ruolo del dott.
Gratteri nell’ambito dell’operazione: in una telefonata registrata sulla linea 113 si ascolta
una conversazione tra Mortola e Canterini dalla quale si apprende che il dott. Gratteri si
era rivolto al primo per sollecitargli la produzione di certificati medici per gli atti (tel. 22
luglio al 113 -07 03.05.22).
Risulta così ampiamente dimostrata la partecipazione diretta ed attiva di Gratteri anche
nella fase della redazione degli atti e, soprattutto, nel controllo del loro contenuto, come
già si è visto descrivendo l’episodio della richiesta a Canterini di redigere la relazione al
Questore, con il suggerimento del contenuto ed il successivo controllo per verificarne la
congruità con gli altri atti. La richiesta di certificati medici attestanti le lesioni subite dai
poliziotti per suffragare il giudizio contenuto nella CNR sulla “proporzione fra forza usata e
violenta resistenza incontrata” è ulteriormente sintomatico del concorso di Gratteri nella
formazione dei verbali.
Secondo i testi Frieri, Calesini, Cremonini gli imputati Luperi e Gratteri dirigono,
comandano, danno disposizioni (ad es. il teste Frieri ha detto di Gratteri: dava
l’impressione di essere il capo, tutto sembrava dipendere da lui; il teste Calesini ha riferito
di Luperi: dirige, comanda, da’ disposizioni).
In definitiva può affermarsi con elevato grado di sicurezza che la linea di comando
dell’operazione è da individuarsi in Luperi, figura di riferimento per gli appartenenti alle
Digos e in Gratteri figura di riferimento per gli appartenenti alle squadre mobili; la
circostanza è del resto affermata anche dalla sentenza impugnata.
Quanto alla consapevolezza delle falsità contenute nei verbali, e riprendendo il tema dello
sdoppiamento dell’operazione in due fasi distinte e separate, sostenuto dalle difese, e
condiviso dal Tribunale al fine di escludere che i due si potessero rendere conto di quanto
era successo, si deve ricordare:
Luperi e Gratteri arrivarono fra i primi sui luoghi, quanto erano in corso i pestaggi di Covell
e di Frieri, e comunque il corpo di Covell sarebbe rimasto ben visibile accasciato vicino al
cancello di ingresso; lo stesso Luperi ha ammesso di aver visto Frieri bloccato a terra da
poliziotti, ma senza saperne il motivo. Risulta, pertanto, poco credibile che i due non si
siano avveduti delle violenze che già erano iniziate ben prima dell’arrivo al cortile della
Diaz;
Luperi e Gratteri entrarono alla Diaz pochi minuti dopo lo sfondamento del portone,
secondo le ricostruzioni dello svolgimento dei fatti sostanzialmente coincidenti contenute
nelle consulenze delle parti civili e dell’accusa, ritenute come le più attendibili
nell'impugnata sentenza. In particolare il momento di ingresso sia di Gratteri, sia di Luperi
è collocabile intorno alle 00,03.30 della domenica 22 luglio, ossia in un momento in cui
non è dato seriamente dubitare che la parte “messa in sicurezza” della operazione di
polizia fosse ancora in pieno svolgimento; conferma della circostanza, come già visto, è
rinvenibile dalle testimonianze di Bruschi Valeria e Thomas Albrecht. È quindi impossibile
che essi non abbiano percepito cosa fosse realmente accaduto essendo due dei massimi
esponenti della Polizia di Stato, e soprattutto che nessuno li abbia informati. A tale
proposito non bisogna dimenticare che almeno l’imputato Fournier ha manifestato di
essere ben consapevole della “macelleria messicana” e di averne fatto espresso
riferimento a Canterini, per cui non è credibile che i due massimi dirigenti non siano stati
informati.
Ma l’evidenza oggettiva dei fatti, anche ammesso che i due fossero giunti all’interno della
scuola dopo la cessazione delle violenze, era tale da ingenerare in chiunque la certezza
che vi fosse stato un gravissimo ed ingiustificato abuso della forza: l’elevato numero dei
feriti anche gravi, le urla strazianti che in ogni caso si sentivano chiaramente all’esterno fin
dall’inizio dell’operazione, le condizioni della scuola all’interno caratterizzate da sangue
fresco su muri e sui caloriferi e per terra, porte divelte, arredi fracassati, vetri infranti
davano vita ad una scena di violenza talmente evidente e generalizzata da non poter
essere seriamene misconosciuta.
Ed infatti l’ultima versione della strategia difensiva di Luperi è stata di affermare che
effettivamente egli si rese conto che le cose non potevano essere andate regolarmente e
che egli manifestava dubbi per l’elevato numero di feriti; e così, per tranquillizzarlo e
dissolvere ogni possibile interrogativo, qualcuno lo avrebbe ingannato sia con l’episodio
dell’aggressione a Nucera, sia con quello del ritrovamento delle molotov. La tesi, se da un
lato è necessariamente coerente con l’evidenza oggettiva di cui si è detto, dall’altro è
manifestamente incredibile quanto all’epilogo, contrastando in primo luogo con le falsità da
lui stesso sostenute, e poi con le emergenze istruttorie ampiamente viste in precedenza, la
pretesa di Luperi di passare quale vittima di inganno altrui.
Alla concreta possibilità di rendersi pienamente conto di quanto era successo all’interno
della scuola si ricollega la vicenda delle bottiglie molotov, come sopra già ricostruita, che
nell’evidenziare la consapevole partecipazione dei due imputati alla predisposizione della
falsa accusa di detenzione delle stesse da parte di tutti gli arrestati, fornisce la conferma
più esauriente del ruolo attivo svolto da Luperi e Gratteri. Costoro, preso atto del
fallimentare esito della perquisizione, si sono attivamente adoperati per nascondere la
vergognosa condotta dei poliziotti violenti concorrendo a predisporre una serie di false
rappresentazioni della realtà a costo di arrestare e accusare ingiustamente i presenti nella
scuola.
Risulta provato il presupposto della condotta addebitata al capo A), consistente:
nell’aver constatato:
- l’effettiva impossibilità di attribuire a tutte ed a ciascuna delle persone occupanti
l’edificio i singoli reperti posti in sequestro durante l’operazione, anche per le modalità
stesse con le quali la perquisizione era stata condotta;
- l’impossibilità di attribuire agli occupanti dell’edificio il possesso delle due bottiglie
Molotov, provenienti da luogo diverso da quello ove ne verrà attestato il rinvenimento,
consegnate in loro presenza mentre si trovavano unitamente ad altri funzionari nel cortile
antistante l’edificio;
- infine la palese mancanza dei presupposti per operare un arresto in flagranza di
tutti gli occupanti dell’istituto, non essendo, fra l’altro, soggettivamente riferibili i reati
ipotizzati di resistenza aggravata, lesioni a pubblico ufficiale, tentato omicidio ed
associazione per delinquere finalizzata alla devastazione ed al saccheggio.
Ed infatti, sono concordi le dichiarazioni delle parti lese secondo le quali gli operatori
presero gli zaini e le cose di pertinenza degli occupanti e li ammucchiarono tutti insieme
indistintamente senza accertare le singole appartenenze (per tutti si vedano le
dichiarazioni di Bruschi Valeria "Mi chiesero i documenti e poi raccolsero i nostri zaini e le
borse, dopo averli svuotati ed averne rovesciato il contenuto in un mucchio a terra”,
Madrazo Francisco Javier Sanz “ho visto alcuni poliziotti in borghese con il casco ed una
pettorina con la scritta Polizia; hanno preso gli zaini e rovesciato a terra il contenuto”,
Martinez Ferrer Ana “entrarono alcune persone in giacca, con una fascia tricolore. Quindi
iniziarono a prendere gli zaini e a svuotarli al centro della sala, lontano da noi”, Villamor
Herrero Dolores “I poliziotti al centro della sala ordinarono a tutti di consegnare gli zaini. I
poliziotti svuotarono poi tutti gli zaini in un mucchio”) Con questa modalità di perquisizione,
ben visibile a Luperi e Gratteri entrati prima ancora che i funzionari iniziassero tale
inconcludente attività, era chiaro ai due massimi vertici della Polizia (anche a Luperi che
era stato ufficiale di P.G. e conservava l’animus del poliziotto, come rivendicato nelle
dichiarazioni spontanee) che nessuna cosa sequestrata poteva fondatamente essere
attribuita alla detenzione di alcuno degli arrestati. La circostanza del resto è risultata
immediatamente chiara anche al Dott. Filocamo della squadra mobile della Questura di
Parma (deposizione all’udienza del 15/11/2007).
Così come, evidentemente, a nessuno poteva essere attribuita la detenzione delle bottiglie
molotov, della cui provenienza dall’esterno i due erano ben consapevoli. Con la
conseguenza che altrettanto indubitabilmente i due erano consapevoli che in tale
situazione non poteva essere eseguito alcun arresto, per l’impossibilità di attribuire ad
alcuno, secondo i principi della personalità della responsabilità penale, i fatti delittuosi
ipotizzati (e la recente esperienza della scuola Paul Klee, che avrebbe dovuto essere
illuminante anche in caso di eventuali dubbi, non ha sortito alcun effetto, con ciò
evidenziandosi ulteriormente il dolo della condotta).
Sulla base di tali presupposti noti agli imputati, le loro condotte hanno costituito
certamente concorso morale nella redazione degli atti falsi, avendo istigato, suggerito e
rafforzato l’intento delittuoso dei sottoscrittori dei verbali. La condotta di Luperi, che ha
gestito in prima persona le bottiglie incendiarie, ha partecipato all’accordo sulla loro
utilizzazione, si è compiaciuto con terzi del ritrovamento, ed ha assistito senza nulla
obiettare alla loro esposizione fra gli oggetti la cui detenzione era riferita agli arrestati ha
costituito concreto e determinante (stante l’autorevolezza della fonte) impulso alla falsa
attribuzione delle molotov a tutti gli arrestati e, conseguentemente, approvazione delle
affermazioni false, pacificamente riferitegli ma non certo per ingannarlo, delle violente
resistenze incontrate all’interno della scuola e dell’uso di armi improprie da parte dei
soggetti che ivi si trovavano (circostanze che, per constatazione diretta fin dall’ingresso
immediato nella scuola, Luperi sapeva essere false).
La condotta di Gratteri, che con Luperi ha gestito l’operazione dall’inizio alla fine, è stata
altrettanto determinante. Basta ricordare l’esortazione a Canterini di inserire nella
relazione, in tutta fretta richiesta per il Questore, la falsa circostanza della violenta
resistenza all’interno della scuola, la richiesta di visionare la relazione per confrontarne il
contenuto con gli altri atti, la sollecitazione a produrre più certificati medici sulle presunte
lesioni subite dai poliziotti. per aver la conferma lampante della ingerenza diretta di
Gratteri anche nella redazione della comunicazione di notizia di reato e dei verbali di
perquisizione e di arresto.
Oltre all’aggravante della natura di atto fidefacente, sussiste anche la contestata
aggravante del nesso teleologico, essendo indubbio, per la logica che sorregge le
condotte sopra viste, che la partecipazione al falso era finalizzata alla calunnia e all’arresto
illegale in danno degli arrestati, allo scopo evidente di garantire l’impunità agli autori delle
gravissime lesioni procurate agli arrestati stessi.
CANTERINI
La responsabilità per la falsa attestazione contenuta nella relazione al Questore circa la
resistenza incontrata all’interno della scuola emerge dal fatto che il contenuto di tale
attestazione è stato sollecitato da Gratteri, mentre Canterini non aveva avuto alcuna
percezione diretta e personale di tali presunte resistenze, come ha ammesso nel suo
esame, ove ha ricollegato la sua affermata scienza diretta del fatto ad una mera
deduzione logica cui egli era pervenuto vedendo gli oggetti sequestrati e sentendo i suoi
uomini. Ma la conoscenza diretta della reale situazione avuta entrando nella scuola, e la
recriminazione di Fournier circa la condotta violenta dei suoi uomini escludono anche che
Canterini potesse aver elaborato tale deduzione logica di fronte alla ineludibile evidenza
del contrario.
I SOTTOSCRITTORI DEI VERBALI
CALDAROZZI Gilberto, primo dirigente, vice direttore del Servizio Centrale Operativo (e
quindi vice di Gratteri), ha sottoscritto il verbale di arresto. Come già osservato in
precedenza anche tale verbale contiene l’esposizione di fatti che vengono riferiti come
percepiti direttamente dai firmatari, fatti in base ai quali venne adottata la decisione di
procedere all’arresto. Le attestazioni ivi contenute ben possono essere oggetto di falso
ideologico. In particolare nel verbale di arresto si riferisce il ritrovamento delle bottiglie
molotov “al piano terra in prossimità dell’entrata”. Caldarozzi, ammesso che avesse potuto
farlo, non ha distinto il titolo in base al quale ha sottoscritto il verbale di arresto, e quindi si
è assunto volontariamente e consapevolmente la paternità anche di tale affermazione
palesemente falsa, senza saper indicare da quale fonte avrebbe attinto tale conoscenza.
“Pur essendo tra i firmatari del verbale di arresto in cui si menziona il luogo di
rinvenimento delle molotov, non ho appreso e non so riferire chi e come abbia, nella
formazione di tale atto riferito le circostanze specifiche contenute nel medesimo verbale
sulle bottiglie molotov; prendo atto che nessuno dei funzionari interrogati è in grado di
specificarlo, ma purtroppo io non ne sono a conoscenza” (int. dr. Caldarozzi 30/7/2002). È
sufficiente richiamare le considerazioni già svolte sul ruolo di Caldarozzi nella vicenda
delle bottiglie molotov e sulla inverosimile tesi di aver ricevuto il sacchetto con le bottiglie
senza nulla chiedere sulla provenienza per drsumere che Caldarozzi, non solo ha
sottoscritto il verbale “al buio” (con ciò commettendo in ogni caso il delitto di falso) ma
anche che egli fosse consapevole della falsità di tale attestazione.
Caldarozzi, dopo aver organizzato i “pattuglioni”, cui nel pomeriggio del sabato 21 luglio
era stato affidato il compito di controllo del territorio e di intercettazione dei facinorosi, ha
partecipato alle riunioni in cui viene decisa prima ed organizzata poi l’operazione di
perquisizione. La sua versione difensiva, anch'essa basata sulla dicotomia di fasi e
sull’assunto di essere giunto sul teatro delle operazioni dopo che si era esaurita la fase
dell'intervento ad opera del personale appartenente al VII Nucleo, è stata smentita dalla
consulenza delle parti civili, che ne colloca l'ingresso all'interno dell'edificio Diaz-Pertini in
un lasso di tempo prossimo a quello del superiore gerarchico Gratteri e dunque in un
momento in cui le “colluttazioni unilaterali” erano ancora in corso. Quindi Caldarozzi è
consapevole anche della falsità del riferimento alla necessità di vincere la resistenza dei
presenti, contenuto nel verbale di arresto.
Sussiste pienamente, pertanto, la contestata fattispecie di falso ideologico aggravata sia
dalla natura fidefacente delle attestazioni in fatto contenute nel verbale di arresto, sia dal
nesso teleologico, come argomentato in precedenza.
MORTOLA Spartaco, dirigente della DIGOS di Genova, ha sottoscritto la comunicazione
di notizia di reato insieme con Dominici ed il verbale di arresto.
Egli ha partecipato attivamente a tutte le fasi dell’operazione dall’arrivo (essendo lo scout
della prima colonna) fino alla redazione degli atti.
Consegue che ha avuto modo di veder tutto quel che accadeva, a cominciare dalle
violenze gratuite poste in essere già nella via Battisti e dal pestaggio di Mark Covell (e
Mortola viene ripreso insieme con Di Sarro dai filmati alle ore 00.19 proprio in prossimità
de luogo di tale pestaggio).
Mortola ha avuto perfettamente modo di vedere come il corpo esanime fosse riverso al di
fuori del cortile e come nulla potesse avere a che fare con le attività poi riferite nel verbale
di arresto, ove è indicato come uno dei soggetti che erano all’interno della scuola Pertini.
Negli interrogatori del 23 e 30 luglio 2002 l’imputato ammette che nessuno sapeva dove
fossero state trovate le bottiglie molotov, e malgrado ciò conferma di aver sottoscritto il
verbale di arresto e la comunicazione di notizia di reato che ne attestano il ritrovamento in
luogo visibile e accessibile a tutti all’interno della scuola (piano terra o primo piano). A
sostegno della falsa tesi circa le resistenze incontrate, Mortola ha riferito, non nella
comunicazione di notizia di reato, né durante le prime s.i.t., ma solo dopo acquisita la
qualità di indagato, di aver assistito alla caduta di un maglio spaccapietre. La tardività del
ricordo di un fatto così eclatante, ed il mancato sequestro del maglio spaccapietre che
avrebbe dovuto trovarsi a terra nel cortile (tutti gli oggetti sequestrati sono stati indicati
come ritrovati all’interno della scuola), sono illuminanti circa le falsità studiate per
giustificare gli arresti.
Giova ancora ricordare la vicenda che coinvolge Szabo Jonas, arrestato con l'accusa
addirittura di essere l'eminenza grigia del blocco nero sulla base di elementi inesistenti,
tanto da essere rilevati come tali anche dall'imputato Mortola nel corso dei suoi
interrogatori. Di tali fatti Mortola viene a conoscenza sul teatro delle operazioni ed in una
fase in cui appare incredibile che egli non si sia informato sulle circostanze relative al
ritrovamento, e cioè che lo zaino del sig. Szabo si trovava presso la Pascoli, che lo scritto
incriminato era in realtà una tesi di laurea sul reverendo Jackson, che Szabo era stato
fermato non all'interno dell'edificio scolastico Pertini ma sulla strada.
Infine sulla falsità sostenute da Mortola in ordine al ritrovamento delle bottiglie molotov si è
già detto.
Anche per questo imputato si è raggiunta la piena prova della responsabilità per il
contestato reato di falso ideologico aggravato dalla natura fidefacente degli atti e dal
nesso teleologico.
DOMINICI Nando
Anche per tale imputato è raggiunta la prova che si è trovato sul posto a mezzanotte, l’ora
dell’irruzione, ed ha dunque assistito a ciò che stava accadendo, tra cui i primi pestaggi ai
danni di Francesco Frieri e Mark Covell. È entrato nell'edificio, salendo ai piani superiori,
rendendosi conto immediatamente dello stato e del numero dei feriti. Con ogni probabilità
Dominici ha assistito anche ad atti di cd. perquisizione all'interno dell'edificio (”ho notato
dei poliziotti in borghese che rovistavano tra le cose presenti nella scuola” interr. del
14/10/2002) .
Egli ha sottoscritto il verbale di arresto “sulla fiducia” riposta nell'operato degli altri
funzionari sottoscrittori in ipotesi autori delle attività ivi documentate, invocando il proprio
contributo (la cui estraneità all'atto non poteva sfuggirgli) rappresentato dallo svolgimento
di attività di identificazione degli arrestati, feriti e trasportati presso gli ospedali cittadini.
Peraltro nel suo interrogatorio del 14/10/2002 Dominici ha confermato quanto a suo tempo
aveva riferito all’ispettore ministeriale Micalizio, e cioè che alla vista del gran numero di
feriti istintivamente si era rivolto al Canterini chiedendogli conto di quello che appariva
come grave e sproporzionato uso della forza, ricevendo dallo stesso versione del tutto
opposta a quanto attestato negli atti, cioè che i suoi uomini erano entrati e “avevano
colpito alla cieca”.
Valgono, al proposito le considerazioni sopra già svolte circa la falsità sia per la
consapevole mancanza di fonte diretta di conoscenza di quanto attestato, sia per concreta
conoscenza della contrarietà al vero delle circostanze affermate.
Per i motivi sopra esposti sussitono anche le due aggravanti contestate.
FERRI Filippo
L’imputato, dirigente della squadra Mobile della Spezia, ha sottoscritto sia il verbale di
perquisizione e sequestro, sia il verbale di arresto, che ha collaborato a redigere a
Bolzaneto insieme con Ciccimarra e Di Bernardini.
Egli ha preso parte a tutte le fasi della vicenda in esame, dall’aggressione subita dalla
pattuglia in Via Cesare Battisti fino all’epilogo rappresentato dal confezionamento dei
verbali di P.G..
Nel verbale di s.i.t. rese il 01/08/2001, confermate integralmente nel successivo
interrogatorio del 18/12/2001, Ferri, dopo aver anch’egli sostenuto la tesi di essere entrato
quando le ferite erano già state inferte, ha ammesso di non essere in grado di riferire se le
bottiglie molotov e le armi improprie fossero nella disponibilità di uno o più degli arrestati.
Tuttavia egli si è assunto la paternità della decisione di procedere all’arresto di tutti quanti
sulla base della formulazione di accusa associativa, ipotesi di reato che gli “sembrava
maggiormente sostenibile per procede all’arresto in flagranza.” L’ammissione tradisce
platealmente lo stravolgimento logico che ha connotato la condotta dei funzionari: il fine
(procedere in ogni caso agli arresti) ha giustificato il mezzo (contestazione di falsa accusa
di delitto associativo).
Dall’esame dell’interrogatorio reso il 18/12/2001 emerge che Ferri è giunto sulla località fra
i primi insieme con Mortola, immediatamente al seguito del Reparto Mobile, per cui è stato
in grado di apprezzare le violenze gratuite commesse per strada ai danni di Covell e Frieri.
Entrato nella scuola dopo il Reparto Mobile (ma, si ricordi nello spazio temporale dei già
rilevati 70 secondi), Ferri ha visto le persone vistosamente ferite radunate al piano terra e
zaini ammassati. Poi è salito ai piani superiori ed ha constatato la presenza di persone
gravemente ferite anche là.
Nel successivo interrogatorio del 20/09/2002 Ferri, pur incaricato di eseguire la
perquisizione, ha ammesso di non avervi provveduto, in quanto occupato a soccorrere i
feriti, ed ha confermato il suo contributo giuridico alla formulazione dell’ipotesi di reato
associativo.
Durante la redazione del verbale di arresto Ferri è stato in contatto con la Questura dove i
suoi sottoposti DI NOVI, CERCHI e MAZZONI collaboravano alla stesura del presupposto
atto di perquisizione e sequestro, per cui risponde a logica e a comune massima di
esperienza che abbia partecipato coordinandola anche alla elaborazione del contenuto del
verbale di perquisizione.
Consegua la piena prova che Ferri era perfettamente consapevole che la realtà dei fatti
era del tutto diversa da quella rappresentata nei verbali da lui prrdisposti e sottoscritti:
all’interno della scuola non vi era alcuna bottiglia molotov, il numero e la gravità dei feriti
escludeva la possibilità di ipotizzare una collettiva attività di resistenza violenta da parte
degli stessi, l’ammasso degli zaini e delle armi improprie impediva la attribuibilità delle
stesse ai singoli arrestati. L’attribuzione delle opposte condotte (resistenza, getto degli
zaini, uso delle armi improprie, detenzione delle bottiglie molotov), rappresenta il
contenuto consapevolmente falso dell’atto, dolosamente finalizzato a giustificare gli arresti,
a calunniare gli arrestati e a coprire le violenze compiute da colleghi e sottoposti.
Anche per Ferri, quindi, sussiste piena prova del contestato reato di falso ideologico
pluriaggravato.
CICCIMARRA Fabio, commissario capo presso la Squadra Mobile di Napoli, ha
sottoscritto il verbale di arresto.
Secondo le dichiarazioni rese nell’interrogatorio del 13/10/2001 egli
- ha partecipato alla riunione in Questura ove si è decisa e organizzata la perquisizione
alla scuola Diaz;
- è arrivato in loco con Mortola prima ancora della chiusura del cancello da parte degli
occupanti la scuola, quindi nella fase in cui venivano picchiati Covell e Frieri;
- entrato nel cortile dopo lo sfondamento del cancello, con i suoi uomini ha tentato di
forzare il portone di ingresso laterale sinistro e, dopo che il reparto mobile riuscì in tale
intento, è entrato nella scuola Pertini;
- dopo aver visto persone ferite scendere la scale accompagnate da colleghi, salito al
primo piano vedeva un poliziotto che picchiava inutilmente un ragazzo inerme e lo invitava
a fermarsi;
- non ha assistito ad atti di violenza da parte dei presenti nella scuola, ne alcuno dei
colleghi gliene ha riferiti;
- si è basato sulla relazione di Canterini per elaborare il contenuto dell’atto;
- la decisione di procedere all’arresto è stata assunta collegialmente da tutti i firmatari del
relativo verbale.
Da quanto ammesso dallo stesso imputato emerge chiara la sua responsabilità per le false
attestazioni contenute nel verbale di arresto: egli non ha assistito alla resistenza e alle
colluttazioni che sarebbero state ingaggiate dai giovani all’interno della scuola e nessuno
gliene ha riferito; anzi ha assistito direttamente ad atti di violenza gratuita commessi da un
collega proprio al piano da dove provenivano altri feriti; la relazione di Canterini (come si è
visto anch’essa falsa) non avrebbe legittimato la attestazione “sulla fiducia”, comunque
non giustificata dalla conoscenza diretta della divergente realtà (la circostanza conferma,
viceversa, il coordinamento operato da Gratteri fra il contenuto dei vari atti stilati
nell’occasione). Egli, entrato tra i primi nella scuola e rimastoci fino alla fine delle
operazioni, aveva constatato che nessuna bottiglia incendiaria era nell’atrio o in altro posto
ben visibile all’interno della scuola, per cui non poteva comparire fra gli oggetti sequestrati
come da relativo verbale di perquisizione al quale il verbale di arresto fa esplicito rinvio
formale; egli non ha visto gli occupanti gettare gli zaini per disfarsene e rendere
impossibile la perquisizione, nessuno gliene ha riferito e la circostanza non è contenuta
nella relazione redatta da Canterini, che non può quindi essere stata fonte ispiratrice al
riguardo.
DI SARRO Carlo, funzionario della DIGOS di Genova alle dipendenze di Mortola, ha
sottoscritto il verbale di arresto. Ha sempre sostenuto di essere rimasto all’esterno della
scuola tranne che per due brevissimi ingressi, di aver visto, su segnalazione di Mortola, gli
oggetti sequestrati fra i quali non vi erano le molotov, di cui apprese solo un volta tornato
in Questura, e di aver sottoscritto il verbale di arresto la mattina della domenica 22 luglio,
malgrado non sappia dire come si giunse a tale decisione; riferisce di aver letto il verbale
prima di sottoscriverlo e di avere avuto perplessità sulla contestazione del reato
associativo, ma di aver ricevuto rassicurazioni da Ferri sulla correttezza della valutazione
giuridica alla luce dei reperti trovati, e fatta salva la eventuale diversa qualificazione
giuridica da parte dell’autorità giudiziaria: al che Di Sarro si risolse a firmare.
Egli, inoltre, è stato tra i primi a giungere sul posto in quanto scout della seconda colonna
giunta da sud, e se non ha assistito al pestaggio di Covell, certamente ne ha visto il corpo
a terra insieme con Mortola, come da video che lo ritrae (min. 00.19 secondo la
consulenza delle parti civili).
Trattasi di tipica ipotesi di sottoscrizione dell’atto “sulla fiducia” per non aver avuto alcuna
cognizione personale sulle circostanze attestate nel verbale di arresto (e a quello di
perquisizione richiamato per relationem) relative alla violenta resistenza, alla perquisizione
ed al ritrovamento dei reperti, nonché sulla loro riferibilità ad alcuni o a tutti gli arrestati.
Anche per Di Sarro sussiste in pieno la contestata ipotesi di falso ideologico
pluriaggravato, in particolare essendo a lui ben chiara, per averne avuto inizialmente
dubbi, la strumentalità delle false accuse rispetto agli arresti.
MAZZONI Massimo, DI NOVI Davide e CERCHI Renzo, le cui posizioni possono essere
esaminate contestualmente, hanno sottoscritto sia il verbale di perquisizione e sequestro,
sia il verbale di arresto; Mazzoni ha in parte redatto materialmente il verbale di
perquisizione e sequestro.
Tutti e tre sostengono di essere sostanzialmente rimasti estranei all’attività di materiale
compimento della perquisizione che sarebbe stata da loro interrotta quasi subito per
dedicarsi, i primi due, alla identificazione dei feriti presso gli ospedali, ed il terzo a trovare
le ambulanze.
Cerchi e Di Novi avrebbero sottoscritto l'atto nella convinzione che la loro firma fosse
dovuta per l'attività svolta, mentre Mazzoni si sarebbe limitato a formare l'elenco degli
oggetti sequestrati (senza peraltro saper indicare – neppure per le bottiglie molotov – le
fonti di conoscenza da cui avrebbe attinto le notizie riferite), per poi lasciare l'atto “aperto”
ed in bozza sul computer, atto che altri avrebbero completato e lui infine sottoscritto dopo
la stampa. Va ricordata, infine, l'ammissione del Di Novi di essere entrato nella Diaz-Pertini
unitamente agli operatori incaricati della “messa in sicurezza” del sito.
Anche in tale ipotesi siamo di fronte ad una consapevole falsità per mancato svolgimento
delle attività che vengono attestate come compiute dai sottoscrittori, non scriminata dalla
redazione successiva di diverso atto (il verbale di identificazione degli arrestati), né dalla
“fiducia” riposta nei compilatori seguenti del verbale (a parte la carenza di indicazione circa
tale sdoppiamento di responsabilità nella redazione dell’atto).
Piena prova, quindi, anche per questi tre imputati, della responsabilità per il falso
pluriaggravato loro contestato.
DI BERNARDINI Massimiliano, vice questore alla Squadra Mobile di Roma, ha
sottoscritto sia il verbale di perquisizione e sequestro, sia il verbale di arresto.
Come risulta dal suo interrogatorio del 17/12/2001 egli è entrato nella scuola Pertini e si è
soffermato nel vano palestra, ove avrebbero dovuto trovarsi in bella vista le bottiglie
molotov, ed ha visto gli zaini e altro materiale ammassati indistintamente a terra. Ha avuto
solo la “sensazione” di uno scontro violento, ma nessuno gli ha riferito di episodi
particolari. In tale situazione le stesse ammissioni dell’imputato, unite alle considerazioni in
precedenza svolte circa l’episodio della gestione delle bottiglie molotov, fondano la sua
responsabilità per la falsità in ordine alle circostanze attestate nei verbali, incompatibili con
quelle effettivamente conosciute come sopra riferite, o della cui conoscenza l’imputato non
ha saputo indicare la fonte. Anche per tale imputato sussiste la evidente strumentalità del
falso rispetto agli arresti di tutti i presenti nella scuola (o tali ritenuti), per cui è configurabile
la responsabilità per il falso ideologico pluriaggravato come contestato.
A tutti i sottoscrittori del verbale di perquisizione e sequestro è addebitabile anche la falsità
relativa alla affermazione “gli occupanti erano stati resi edotti della facoltà di farsi assistere
da altre persone di fiducia”, circostanza non vera ma che non ha impedito, né ha
comportato dubbi al riguardo, la sottoscrizione del verbale.
NUCERA MASSIMO e PANZIERI MAURIZIO hanno sottoscritto le rispettive annotazioni
sull’episodio dell’accoltellamento nonché il verbale di perquisizione e sequestro e quello di
arresto. Sulla falsità dell’episodio dell’aggressione a mano armata di Nucera basta
richiamare quanto ampiamente più sopra argomentato. Le due false annotazioni sono
state allegate alla comunicazione di notizia di reato ed il loro contenuto è stato trasfuso nel
verbale di arresto, sottoscritto dagli imputati, al fine di rafforzare l’accusa di resistenza e
detenzione di armi a carico di tutti gli arrestati, per cui non esistono margini di dubbio sulla
responsabilità dei due imputati per il delitto di falso ideologico pluriaggravato loro
contestato. L’assunto difensivo secondo il quale i due non avrebbero voluto firmare i
verbali, e a ciò sarebbero stati indotti dalle pressioni ricevute dai superori gerarchici
presenti, che li avrebbero anche a lungo trattenuti in Questura, non è riscontrato da alcun
elemento neppure indiziario, per cui non vi è spazio per ipotizzare un vizio del consenso
per violenza tale da escludere la responsabilità per carenza dell’elemento soggettivo.
GAVA Salvatore, funzionario in servizio presso la Questura di Nuoro, con riferimento alla
sua sottoscrizione del verbale di perquisizione e sequestro è imputato di falso per non
aver minimamente partecipato all’attività di P.G,, non essendo neppure entrato nella
scuola Diaz-Pertini.
La sua posizione trova completo inquadramento giuridico nella sentenza della Corte di
Cassazione già citata che ne ha confermato la correttezza dell’imputazione coatta.
Secondo la Corte Suprema vi sono solo due alternative possibili: o Gava è stato ingannato
in qualche modo da terzi nell’apporre la sua sottoscrizione (ed allora è esente da
responsabilità essendo in tal caso il falso solo colposo), o, se ha firmato consapevolmente,
non può essere esente da responsabilità per il solo fatto di aver successivamente
partecipato ad altro atto, l’identificazione degli arrestati, che ben doveva sapere essere
attività del tutto estranea a quella tipica della perquisizione.
ll Tribunale, esclusa correttamente l’ipotesi della sottoscrizione per errore, ha assolto Gava
sul presupposto che la sua convinzione di dover firmare per aver proceduto alla
identificazione degli arrestati giustificasse la condotta escludendo il dolo.
Sorprendentemente il Tribunale disattende scientemente il principio di diritto dettato dalla
Corte di Cassazione senza fornire alcuna spiegazione di tale scelta.
Al contrario questa Corte condivide appieno il principio sancito dalla Cassazione secondo
il quale il P.U. è legittimato a sottoscrivere l’atto pubblico solo in quanto autore delle attività
ivi descritte o spettatore diretto degli avvenimenti che riferisce, e che il compimento di altre
attività (come la successiva identificazione degli arrestati) ben può e deve formare oggetto
di un altro atto, ma non può confluire anonimamente in quello precedente (nel caso in
esame la perquisizione). Vale, in ogni caso, il rilievo già evidenziato che nel verbale di
perquisizione e sequestro manca ogni specifico riferimento sulla limitata e diversa attività
asseritamente compiuta da Gava, per cui la sottoscrizione incondizionata comporta
assunzione di responsabilità del Gava per tutti gli aspetti significanti del verbale, in primo
luogo la sua partecipazione all’attività di perquisizione.
Anche per Gava, quindi, sussiste la responsabilità per il contestato falso ideologico
pluriaggravato.
LA CALUNNIA E L’ARRESTO ILLEGALE
L’accertamento delle responsabilità per i falsi come sopra argomentato conduce al
riconoscimento, tranne che per Burgio e Troiani, come già visto, della responsabilità per la
contestata calunnia ascritta a Luperi, Gratteri e agli altri sottoscrittori degli atti ai capi B),
D), G), L), N), 2) Proc. 5045/05 Trib..
È già stata argomentata la stretta correlazione fra l’indicazione di circostanze false negli
atti e la finalità di procedere all’arresto di tutti i presenti nella scuola, con la necessaria
formulazione di accuse che, in quanto basate su tali false circostanze, integrano
chiaramente l’ipotesi delittuosa della calunnia.
Il concorso morale accertato in capo a Luperi e Gratteri nella redazione dei falsi verbali
comporta la loro responsabilità allo stesso titolo anche per la calunnia, essendo anche loro
partecipi della specifica finalità cui erano preordinate le false attestazioni. Constatato
l’esito disastroso della irruzione, l’inesistenza dei c.d. black bloc e l’assenza di armi, la
necessità procedere agli arresti e di giustificare le numerose e gravi lesioni inferte ha
indotto i due massimi dirigenti che conducevano le operazioni a coordinare l’attività di
confezionamento di un complesso di false accuse che fosse apparentemente idoneo a
giustificare arresti e violenze. Sono sorte, così, le false accuse di violenta resistenza, di
utilizzo di armi improprie, tra le quali strumenti di lavoro che erano presenti in loco per la
pacifica esistenza di un cantiere edile, e le barre metalliche estratte dagli zaini, la falsa
detenzione delle bottiglie molotov, la falsa aggressione all’arma bianca ai danni di Nucera.
Come si è visto analizzando la condotta di Luperi e Gratteri essi erano pienamente
consapevoli che la loro condotta costituiva approvazione ed esortazione alla formulazione
delle false accuse per giustificare gli arresti, Luperi perché esperto analista di terrorismo e
criminalità organizzata, lungi dall’essere stato vittima di inganni altrui, ritenendosi
soddisfatto delle spiegazioni a suo dire ricevute a fronte delle sue evidenti perplessità
sull’accaduto e partecipando alla gestione delle bottiglie molotov; Gratteri perché, oltre a
partecipare alla gestione delle molotov, ha anche concorso attivamente alla concertazione
del contenuto degli atti da presentare all’autorità giudiziaria.
Nessun dubbio, ovviamente, sussiste sulla responsabilità per la calunnia in capo ai
sottoscrittori del verbale di perquisizione e sequestro, del verbale di arresto, nonché della
comunicazione di notizia di reato, atti della cui consapevole falsità si è ampiamente detto,
e che per loro natura sono istituzionalmente destinati all’autorità giudiziaria. Ma ad
analoga conclusione deve pervenirsi anche relativamente all’annotazione di servizio
redatta da Canterini ed indirizzata al Questore, a nulla rilevando che l’autore non avesse
ipotizzato che tale suo atto sarebbe stato allegato alla CNR trasmessa all’A.G., posto che
il Questore aveva certamente l’obbligo di riferire a quella autorità dei reati di cui veniva a
conoscenza tramite la relazione di Canterini.
Ricorrono anche le due aggravanti contestate, quella di cui al 2° comma dell’art.368 c.p. in
conseguenza dell’entità della pena edittale massima prevista per il reato oggetto di
calunnia di devastazione e saccheggio (art. 419 c.p.) superiore ad anni 10, e quella del
nesso teleologico che lega la calunnia alla commissione dell’arresto illegale.
Le condotte come sopra descritte corrispondono alla contestazione in fatto di cui ai capi E)
e 3) Proc. 5045/05 Trib a carico di Luperi, Gratteri, Caldarozzi, Ciccimarrra, Ferri, Mazzoni,
Cerchi, Di Novi, Di Sarro, Mortola, Dominici e Di Bernardini.
È evidente, infatti, che lo scopo primario conseguito, quello di procedere all’arresto di tutti i
soggetti presenti nella scuola e all’esterno nelle immediate vicinanze, è stato attuato nella
assenza dei presupposti legali legittimanti l’atto. Si deve escludere alcun margine di
possibile errore di valutazione giuridica a fronte della creazione di false prove a carico, e
della oggettiva e indiscutibile impossibilita di attribuire indistintamente a tutti gli arrestati la
responsabilità per i reati ipotizzati in mancanza oggettiva, risultante per tabulas dagli stessi
atti, di elementi individualizzanti, ed essendo macroscopicamente pretestuosa la riferibilità
a tutti delle bombe molotov solo perché site in luogo “accessibile e visibile a tutti”.
Ritiene, peraltro, la Corte, conformemente alle richieste finali del P.M. in primo grado, che
la fattispecie debba essere inquadrata nell’ipotesi dell’arresto illegale di cui all’art. 606 c.p.
piuttosto che in quella contestata dell’art 323 c.p., alla luce della giurisprudenza (Cass.
pen. Sez. 5, Sentenza n. 6773 del 19/12/2005 Ud) che, nell’enucleare le differenze fra
sequestro di persona con abuso della qualità di pubblico ufficiale e arresto illegale,
individua la seconda fattispecie allorché la condotta criminosa consiste proprio nell'abuso
specifico delle condizioni tassative (commissione di un delitto; stato di flagranza o quasi
flagranza) alle quali la legge subordina il potere di arresto. Nel caso di specie gli imputati
hanno proceduto all’arresto in assenza del presupposto della flagranza di alcun reato, e
ciò integra la fattispecie di cui all’art. 606 c.p..
I REATI RELATIVI ALL’INGRESSO NELLA SCUOLA PASCOLI
Tra i fatti oggetto di processo vi sono anche le vicende connesse all’irruzione compiuta
dalla Polizia nella scuola Pascoli, fronteggiante la scuola Pertini, cristallizzate nei residui
capi di imputazione S), T), U) e V) a carico di Gava Salvatore.
La tesi della difesa dell’imputato Gava, fatta propria dal Tribunale, è incentrata sull’assunto
che l’ingresso in tale scuola sia avvenuto per errore, che all’interno nessuna attività di P.G.
e tanto meno illecita sia stata compiuta, essendo Gava e i suoi uomini entrati dopo altri
reparti e usciti dopo pochi minuti, e che Gava non era comunque al comando di tutti gli
uomini entrati in tale scuola ma solo dei suoi colleghi di Nuoro.
Premesso che tale errore in realtà non ci fu, come si argomenterà in seguito, deve rilevarsi
che in ogni caso le condotte devono essere valutate per quello che effettivamente è
accaduto, essendo la responsabilità di eventuali reati commessi all’interno della scuola
indipendente dall’esistenza di errore nella decisione assunta dalla Polizia di compiere
irruzione anche in tale edificio.
Il presunto errore è stato giustificato dal Tribunale con il fatto che la targa esterna a tale
scuola riporta la scritta “Scuola Diaz”, circostanza che avrebbe indotto Gava e gli altri
operatori a ritenere che fosse proprio la scuola destinataria della perquisizione. Ma a parte
il fatto che di tale targa si sono accorti solo successivamente i Carabinieri fotografandola e
che nessuno degli operatori di Polizia vi ha fatto menzione a sostegno del presunto errore,
deve rilevarsi che secondo la maggior parte del personale intervenuto (e le stesse
ammissioni di Gava) l’ingresso nella scuola avvenne dai portoni laterale e retrostante, ove
non c’era nessuna targa ingannatrice.
L’argomentazione del Tribunale non regge la verifica di compatibilità con altri gravi e
concordanti indizi di segno opposto.
Secondo la ricostruzione cronologica svolta dal consulente delle parti civili, in base
all’audio della cassetta registrata da Trotta in cui si odono i comandi di mettersi a terra e
contro il muro, e alla interruzione delle trasmissioni in diretta di radio GAP, l’ingresso nella
Scuola Pascoli è avvenuto alle 00.04.42, quindi 5 minuti dopo l’ingresso nel cortile della
Pertini. In quel momento, come si evince chiaramente anche dalla visione dei filmati, una
gran massa di operatori di Polizia stava entrando nella Diaz Pertini, per cui era evidente a
chiunque quale fosse l’edificio di interesse primario per la Polizia; in ogni caso era chiaro a
Gava che stava entrando in un edificio diverso e quindi immediato doveva sorgergli il
dubbio che si trattasse di un’altra scuola.
Il teste Gonan Giuseppe (udienza 10/1/07), che ha assunto la direzione della Digos di
Genova dall’11 settembre 2001 ed ha ricevuto l’incarico di accertare l’identità dei poliziotti
intervenuti nell’operazione Diaz, ha riferito “Gli operatori Pantanella, Padovani, Garbati e
Vannozzi mi dissero di aver fatto ingresso nella Pascoli dopo aver visto che da una
finestra del terzo piano della scuola vi era un giovane che riprendeva l’intervento In
particolare ricordo che l’Ass. Pantanella disse di essere entrato per identificare chi faceva
le riprese, e che, non avendolo trovato, avevano sequestrato quattro videocassette Subito
dopo fu disposta l’immediata uscita dalla Pascoli. Un altro collaboratore riferì di essersi
sbagliato ad entrare.”
L’imputato Mortola nell’interrogatorio del 27/10/2001 ha confermato che accanto alla tesi
dell’ingresso nella Pascoli per errore alcuni sostenevano la diversa tesi fondata sulla
necessità di mettere in sicurezza anche tale edificio.
Il teste Colacicco Alessandro, agente scelto della Polizia di Stato in servizio a Napoli, nella
deposizione all’udienza del 15/06/06 ha riferito che, incaricato della cinturazione di un
edificio scolastico, giunto in Via Battisti ebbe incarico dal suo dirigente di effettuare la
cinturazione della scuola Pascoli, e che poco dopo “personale che era in borghese che
era all’interno della scuola … ci chiamarono dalla scuola e mi ricordo che dissero al mio
capo equipaggio che bisognava controllare delle persone mentre loro avrebbero
proceduto alla perquisizione”.
L’assistente Mele Salvatore (facente parte del gruppo della Squadra Mobile di Nuoro al
comando di Gava) all’ud. 31/01/08 ha riferito: “arrivati lì sul posto, ci venne incontro un
collega della Questura di Genova, praticamente venimmo divisi in due gruppi, ci dissero
che dovevamo entrare in questa scuola...”
La permanenza all’interno della Pascoli, come da testimonianze concordi, si è protratta per
un periodo di tempo oscillante tra la mezz’ora e i quarantacinque minuti, per cui in questo
ampio lasso di tempo Gava e gli altri operatori avevano avuto la possibilità di notare come
all’interno dell’edificio fossero presenti numerosi segnali indicativi della presenza di un
media center. Il teste Bria (ud. 15/03/06) ha dichiarato “c’erano diversi cartelli ed era
espressamente scritto che quello era il Centro Media del Genova Social Forum, poi al
piano terra c’era l’accoglienza che era indicata da un cartello” e il teste Fletzer (ud.
07/12/05) ha riferito “l’istituto era contrassegnato da varie scritte che parlavano, appunto,
di Centro stampa, di Centro Legale, e al nostro piano, in ogni stanza, era ben visibile la
scritta “Redazione del Manifesto di Carta, Redazione di Liberazione, redazioni di Radio
Gap, composta da una serie di emittenti, fra cui la nostra. All’ingresso c’era un infinità di
cartelli, delle comunicazioni e c’era subito un ufficio accrediti”; della stanza dei legali il
teste Nanni (ud. 30.11.05) ha riferito che “sulla porta c’era scritto “Avvocati del Genova
Social Forum” o “centro legale del Genova Social Forum”.
Tutte le predette circostanze concorrono ad escludere che l’ingresso nella Pascoli sia
avvenuto per errore; in realtà l’ingresso è avvenuto intenzionalmente per evitare che dalle
riprese audio-video che erano in corso da quella scuola rimanessero tracce della irruzione
in corso presso la scuola Pertini, e se c’è stato errore questo è consistito nell’entrare nella
sede del GSF ove un intervento della Polizia era politicamente controproducente. Non a
caso l’occupazione è terminata solo dopo l’intervento della On. Mascia che ha ottenuto lo
sgombero.
Un secondo errore di valutazione compiuto dal Tribunale risiede nell’affermazione secondo
la quale Gava e i suoi uomini sarebbero entrati per ultimi, quando altri operatori avevano
già bloccato i presenti all’interno della scuola.
Lo stesso imputato Gava nell’interrogatorio del 13/02/02 ha riferito che l’ingresso in
Pascoli da parte di tutti gli appartenenti alle diverse squadre mobili di Genova, Roma e
Nuoro è avvenuto in modo sostanzialmente contestuale “i primi a entrare siamo stati una
ventina”.
Inoltre quattro componenti della Squadra Mobile di Nuoro, Mele Salvatore, Gallistu Tonino,
Bellu Massimiliano e Mannu Antonio all’udienza del 31/01/08 hanno riferito di un ingresso
contestuale di tutti gli operatori non appena ricevuta l’indicazione di entrare proprio nella
Pascoli.
Non è neppure vero che Gava si sia fermato solo al secondo piano: i testimoni che hanno
assistito al colloquio fra l’On. Mascia e Gava hanno collocato l’episodio al terzo piano: il
giornalista inglese William Hayton all’udienza dell’11/01/2006 ha riferito che era al terzo
piano quando arrivò una donna che mostrava un libretto (il tesserino parlamentare) e
subito dopo la polizia se ne andò; e Moser Nadine all’udienza 6/4/2006 ha riferito di aver
visto la parlamentare presso l’Indymedia, che si trovava al terzo piano, e subito dopo che
la stessa aveva parlato con la Polizia, la scuola venne abbandonata dagli agenti. Lo tesso
Gava nel suo interrogatorio ha riferito di esser andato a visionare tutti i piani e che
l’incontro con l’on. Mascia avvenne al secondo o al terzo piano.
Passando all’esame degli avvenimenti all’interno della Pascoli, occorre rilevare che la
cassetta con la registrazione audio di Trotta scampata all’irruzione consente di ascoltare
gli ordini secchi impartiti dagli operatori appena entrati nella scuola, con i quali veniva
ordinato “tutti a terra, faccia al muro, fuori dalle aule”.
Le univoche descrizioni, ripetute con ricchezza di particolari in dibattimento, da parte di
tutte le parti offese evidenziano un ingresso avvenuto in modo forzoso e determinato,
senza eccessive difficoltà nel superare i banchetti che qualcuno aveva posto dinanzi
all’entrata laterale della scuola, con immediata intimazione rivolta a tutti di sdraiarsi a terra
o mettersi in ginocchio e faccia al muro.
Anche in questa scuola, oltre alla privazione della libertà di movimento per tutti i presenti,
obbligati a recarsi nei corridoi e a stare in piedi con le braccia al muro, e poi seduti per
terra, si sono verificati episodi di violenza, come dallo stesso Tribunale ricostruiti.
Le prime deposizioni che possono essere ricordate sono quelle di Brusetti e Pavarini
(udienze 24/11/05 e 24/05/06) che erano al piano terra in prossimità della palestra della
scuola.
Il primo ha dichiarato di aver ricevuto l’ordine di andare nella palestra e lì di “mettersi
sdraiato, faccia a terra come gli altri, con le mani dietro la nuca”. “C’era un certo Sebastian
che era sdraiato su una brandina lì dolorante per i colpi subiti che chiedeva di potersi, di
non sdraiarsi perché non ce la faceva e mi ricordo il poliziotto, uno dei poliziotti che gli
diceva: non mi interessa, mettiti per terra. Mi ricordo poi che un’altra persona, avrà avuto
35, 40 anni si tirava in piedi da sdraiato e diceva: ma ci volete fare vedere un mandato o
qualcosa? E loro che dicevano: questo non è un telefilm americano, questo non è una
favola, adesso ve la facciamo vedere noi, adesso vi massacriamo. E a quel punto la gente
è stata zitta, si è messa faccia a terra”. Pavarini ha dichiarato: “ci hanno intimato di andare
in palestra e a distenderci sul pavimento. Alcune persone hanno tentato di avere una
spiegazione, di capire quello che stava succedendo, del perché dell’irruzione e le
spiegazioni non ci sono state date. Anzi, ci è stato detto di stare zitti, che avevano il diritto
e il potere di fare qualsiasi cosa e che era meglio non chiedere niente, non sapere niente”.
Alberti Massimo, Galeazzi Lorenzo, Salvati Marino, Curcio Anna, Clementoni Francesca,
Podobnich Gabriella, Morando Daniela e Gallo Alessandra si trovavano nella stanza di
Radio GAP, al secondo piano, quando irruppero nella stanza alcuni poliziotti con viso
coperto da fazzoletti, armati di manganelli che brandivano. La Morando ha raccontato che
colpivano i banchi, spaventando i presenti. Secondo la Curcio non diedero spiegazioni:
intimarono di stare fermi, abbassare le tende, non avvicinarsi alle finestre, preparare i
documenti. La Clementoni afferma che annunziarono una perquisizione e che non
occorreva un “mandato”.
Fra le persone che si trovavano al secondo piano, il teste Fletzer, giornalista pubblicista,
ha dichiarato di essere stato vittima della violenza della Polizia. Il teste Brusetti venne
colpito. Tutti i presenti dovettero stendersi a terra con le mani dietro alla nuca. Nella
palestra il dr. Costantini, medico presente nell’infermeria, trovò due giovani che erano stati
colpiti.
La condotta tenuta dagli appartenenti alla Polizia di Stato nei locali in uso al Mediacenter
ed agli avvocati, sempre al primo piano della Pascoli, è stata descritta da Bria Francesca
la quale ha riferito che, mentre assisteva dalla finestra all’avanzata della Polizia verso la
Pertini, sentì rumori provenire dal basso, poi irruppero alcuni poliziotti, taluni in uniforme,
altri in borghese con pettorine. Urlavano: “Giù per terra! faccia a terra!”. La teste li vide
rompere un computer e colpirne altri. Fu percossa con un manganello. I presenti vennero
poi condotti nel corridoio ed obbligati a rivolgersi verso il muro. Dopo una decina di minuti
fu ordinato di sedersi per terra.
Stesso racconto ha reso Galvan Fabrizio, il quale fu colpito da una cassa acustica, mentre
i poliziotti sfasciavano i computer, e Lenzi Stefano, il quale non trovò più il suo telefono,
quando rientrò nell’aula. Più drammatica è la ricostruzione dei fatti di Minisci Alessandro,
perché, oltre a descrivere con maggiori dettagli i gesti di devastazione che attribuisce ad
un numero da cinque a otto poliziotti, dichiara che essi chiedevano urlando dove fossero
armi e droga. Riferisce inoltre di un colpo inferto da uno di loro ad un giovane. Minisci
stesso venne schiaffeggiato da un poliziotto.
Anche al terzo piano avvennero atti di violenza e prevaricazione, come descritto nella
sentenza di primo grado.
Nella stanza avvocati del primo piano avvennero danneggiamenti alle apparecchiature
informatiche che erano state affidate al teste Brusetti Ronny, consegnatario dell’edificio e
del materiale ivi contenuto. La domenica successiva a mezzogiorno il funzionario
comunale addetto si recò nella scuola Pascoli per prenderne visione e riscontrò che i
computer in funzione al primo piano erano stati gravemente danneggiati: sembrava
fossero stati colpiti “a randellate”.
Relativamente all’interruzione delle trasmissioni internet di Radiogap, contrariamente a
quanto sostenuto dal Tribunale, al dibattimento è emerso con chiarezza essersi trattato di
iniziativa diretta degli agenti di Polizia: il teste Di Marco (ud. 29/11/06) ha riferito di “un
episodio rilevante ossia lo spegnimento da parte del poliziotto dell’apparecchiatura ISDN”,
episodio confermato anche dal teste Salvati (ud. 12/04/06) che ha dichiarato: “capito che
cosa stavamo facendo, si sono consultati un attimo fra di loro e hanno… sono rientrati e
hanno spento il mixer, in modo da interrompere le trasmissioni”. Definitiva e insospettabile
conferma è stata fornita dal sovrintendente Sascaro (ud. 30/01/08) che ha riferito di aver
dato ordine insieme con altri agenti “di spegnere la radio che stava trasmettendo”. “Loro si
sono lamentati – sempre secondo Sascaro – e non so se poi a staccare la spina siamo
stati noi o loro.” Circostanza che spiega come se anche materialmente allo spegnimento
ha provveduto un operatore della radio, ciò è avvenuto su ordine della Polizia.
Il Tribunale, pur dando atto che secondo i testimoni alcuni poliziotti avevano infierito anche
sulle attrezzature informatiche, sostiene che gli autori di tali danneggiamenti non sono stati
identificati e che non è ipotizzabile che tale condotta sia stata tenuta dai poliziotti, che per
asportare gli hard disk avrebbero avuto necessita di tempo e attrezzature (cacciaviti) per
smontare i case. In secondo luogo il Tribunale trova inspiegabile il motivo per cui tale
violento accanimento abbia preso di mira solo le attrezzature informatiche in uso agli
avvocati.
La valutazione delle condotte sopra descritte, dal Tribunale riportate asetticamente,
conduce a ritenere non casuale l’irruzione nella scuola Pascoli, così come del resto
evidenziato dalle comunicazioni ufficiali inviate dal Questore al capo della Polizia. La nota
informativa inviata nelle prime ore del 22/07/01 ed acquisita agli atti del processo è
preceduta da un lungo fonogramma dall’identico contenuto sempre diretto alla medesima
autorità, nella quale si legge che “contemporaneamente alla perquisizione, veniva
effettuata una verifica all’interno dei locali della sede stampa del GSF sita in un edificio
prospiciente il complesso scolastico Diaz, senza il compimento di ulteriori atti od
operazioni per assenza di qualsiasi problematica concernente la sicurezza”. Come
affermato dall’imputato Mortola, cioè, si trattava di mettere in sicurezza la zona, ovvero
impedire turbamenti dell’operazione in corso, ritenuti possibili anche per la presenza di
persone che operavano riprese filmate dalle finestre.
Così come è risultato provato, contrariamente a quanto sostenuto dal Tribunale, che vi fu
attività di perquisizione e di asportazione di oggetti.
E’ lo stesso agente Pantanella Giovanni (udienza 03/10/07) ad ammettere pacificamente
di aver preso quattro cassette di video-camera che si trovavano su un tavolo al momento
della perquisizione. In alcuni casi le cassette sono state estratte direttamente dalle video
camere (il teste Trotta all’udienza del 07/06/06 ha riferito del prelevamento di oggetti dalle
stanze ove i poliziotti entravano e di aver constatato che dall’interno della videocamera
dell’amico Stephen Stegmaier era stata sottratta la cassetta). E’ stato sottratto materiale
video anche al terzo piano della Pascoli (testi Valenti, Luppichini, Forte). David Jones
(udienza 26/1/2006) ha riferito di acquisizione di nastri audio, video o minidisk e floppy
mentre i presenti erano costretti a stare in piedi faccia al muro impossibilitati a telefonare.
Dalla stanza di Radio Gap i testi riferiscono di aver visto portare via il materiale in alcuni
scatoloni.
All’udienza del 03/10/07 il sovr. Bassani ha riferito le modalità di tale apprensione,
giustificandola con una non meglio precisata esigenza di evitare che immagini
dell’operazione finissero in chissà quali mani. Ha aggiunto poi di aver ritenuto di non
redigere verbale per la convinzione che si trattasse di materiale da far confluire nei verbali
che si sarebbero redatti a conclusione dell’operazione.
Secondo la ricostruzione del teste Lenzi, responsabile nazionale del WWF, dal momento
dell’ingresso nell’Istituto a quello in cui gli operatori sono entrati nella stanza dei legali
sono passati non più di due minuti, il tempo di contattare telefonicamente un avvocato per
avvisarlo dell’irruzione; il comandante del gruppo di agenti appena entrato, ha ordinato
immediatamente ai presenti di sdraiarsi faccia a terra. Senza ricevere alcuna istruzione, gli
agenti hanno iniziato a fracassare computer e telefoni che si trovavano sul lato sinistro
della stanza. Dopodiché i presenti sono stati fatti uscire dalla stanza e gli agenti si sono
trattenuti alcune decine di minuti all’interno senza che nessuno potesse entrarvi. Al rientro,
oltre agli evidenti danneggiamenti si poteva constatare la sottrazione degli hard disk dei
p.c. in dotazione ai legali e del materiale cartaceo presente prima del bliz sui tavoli sui
quali i legali svolgevano il loro lavoro.
Può desumersi da tale descrizione dei fatti che gli agenti conoscevano evidentemente non
solo la collocazione dei pc dei legali all’interno dell’Istituto, ma anche la collocazione dei
medesimi all’interno della stanza. Infatti tutti i testi che sono stati in grado di ricordare la
posizione dei pc in uso agli avvocati all’interno della stanza (per es. Galvan, Lenzi,
Malfante, Cattini, Testoni), o perché vi avevano lavorato, o perché avevano assistito al loro
lavoro, hanno confermato che i legali utilizzavano i pc ed i telefoni posti sul lato sinistro
entrando, mentre i pc collocati sui tavoli collocati sul lato destro in uso per altre attività,
sono rimasti intatti e non hanno subito alcun tipo di danneggiamento o di manomissione.
La inconfutabile conferma dell’avvenuto svolgimento di attività di perquisizione è data dalla
deposizione del vicesovrintendente della Polizia di Stato Grispo, incaricato dell’attività di
controllo sulla corrispondenza tra quanto indicato nei verbali di sequestro e quanto
effettivamente depositato negli uffici della Polizia, il quale ha riferito (ud. 08/03/07) “negli
scatoloni che sono stati depositati c’erano anche 4 cassette di cui non è fatta menzione
nei verbali”. Nella relazione di servizio di Mortola e Scorfani – acquisita agli atti del
dibattimento -, datata 9 agosto 2001 i due scrivono: “Per quanto attiene alle quattro
cassette, in merito alla difformità tra il materiale acquisito e quello sequestrato, si
sottolinea il seguito di comunicazione di notizia di reato inviata in data 30.7.01 al
Procuratore Aggiunto Dott. Lalla, e si trasmette la relazione di servizio redatta dal
personale Digos dalla quale si evince che l’acquisizione è stata operata da Bassani,
Pantanella e Garbati che non l’hanno tempestivamente comunicata nell’erronea
convinzione che detto materiale fosse stato inserito nel verbale di sequestro”. E nella
comunicazione via telex dello stesso dirigente Mortola al Capo della Polizia, datata
05//08/01 (della quale il Tribunale non fa menzione), in relazione ad una videoripresa
effettuata alle ore 23 circa del giorno 21/07/01 all’esterno della scuola Diaz in via Cesare
Battisti, il dirigente della Digos dichiara che “il video è stato acquisito dal personale della
Polizia intervenuto senza compiere alcun atto di perquisizione nella scuola Pascoli” e di
seguito che “il materiale video, costituito da due microcassette, è confluito fra tutti i reperti
sequestrati o comunque acquisiti all’interno della scuola Diaz ed all’A.G. è stata data
tempestivamente notizia delle modalità di acquisizione, consegnando successivamente in
data ieri 4 agosto la videocassetta su cui sono state riversate le immagini.” È
particolarmente significativo il linguaggio palesemente atecnico utilizzato dal Dirigente
Mortola che tradisce l’imbarazzo di descrivere come attività di “acquisizione” condotte che
dal punto di vista giuridico, per lui ineludibile, non potevano che essere qualificate veri e
propri sequestri.
Non pare seriamente discutibile che in presenza addirittura del frutto dell’attività di ricerca
di cose, anche nella scuola Pascoli è stata compiuta attività di perquisizione.
Né conclusivo in senso contrario è l’argomento relativo alla riconducibilità al gruppo “black
bloc” di quanto sequestrato dai Carabinieri presso l’edificio Pascoli. Il sequestro di tale
materiale avvenne infatti a distanza di più di 24 ore dall’accesso della Polizia, il 23 luglio
alle ore 12.30, quando già i locali erano stati “visitati” da numerosissime persone ed in
parte modificata la situazione originaria dei luoghi. In quei giorni in cui, come riconosciuto
dal Tribunale, tutto poteva accadere, non può attribuirsi a tale fatto con sufficiente certezza
il valore di prova idonea ad eludere le evidenti emergenze processuali sopra ricordate,
anche perché tutti i testi hanno riferito che le ricerche compiute dalla Polizia erano state
piuttosto superficiali, essendosi l’interesse degli operatori concentrato sui materiali
informatici e su quelli audio visivi.
Non convincente, infine, è la perplessità manifestata dal Tribunale sulla possibilità
concreta per i poliziotti di danneggiare i computers per asportare gli hard disk interni e
sull’interesse a compiere tale attività mirata proprio sulle attrezzature degli avvocati.
Quanto al primo aspetto basta ricordare la circostanza (deposizione Lenzi) secondo la
quale gli occupanti la sala degli avvocati furono fatti uscire e gli operatori, una volta entrati,
vi stazionarono indisturbati per diversi minuti, avendo quindi tempo e possibilità (l’apertura
di una case anche se di vecchio tipo chiuso con viti non richiede attività complessa) per
asportare i componenti interni.
Quanto al secondo profilo, che ricorda gli analoghi dubbi sull’interesse a mentire di Nucera
e Panzieri, basta ricordare che la motivazione principale per cui è stata disposta l’irruzione
nella Pascoli è stata impedire l’ulteriore ripresa di quanto la Polizia stava compiendo, e
quindi lo scopo era eliminare le testimonianze materiali costituite da riprese audio e video
e, quindi, anche i supporti destinati naturalmente alla loro conservazione quali gli hard disk
dei computers. Del resto era noto che l’attività svolta durante tutta la manifestazione del
G8 dagli avvocati del GSF era stata anche quella di raccogliere materiali di
documentazione su eventuali condotte illegali ai danni dei manifestanti pacifici, per cui non
può creare alcuna sorpresa che nell’occasione anche i computers degli avvocati siano
stati oggetto dell’interesse immediato e diretto degli operatori di polizia entrati nella
Pascoli.
Da ultimo occore dare conto che il Tribunale, per escludere che sia avvenuta una
perquisizione, utilizza ampiamente in motivazione l’episodio della offerta da parte dei
Poliziotti di pasta contenuta in una pentola, e uno spezzone di video-ripresa del giornalista
TG3 RAI Riccardo Chartroux. Quanto al primo episodio, il tetse che ne riferisce William
Hayton (ud. 11/01/06) lo ha qualificato come sureale ed inspiegabile, e comnuque
avcenjtoment i prsnrti erano ancora obbligfti a stere fermo nei corridpi, per cui assume il
sapore di mero dileggio. Quanto al filmato RAI, se è vero che i soggetti rispresi non
mostrano eclatanti segni di sofferenza, è tuttavia evidente che essi manifestano solo
rilassamento per la fine della iniziale fase aggressiva e violenta e per la presenza di
operatori televisivi, garanzia che di non correre rischi di ulteriori violenze; ma il video
conferma che i presenti continuano a mantenere posizioni vincolate e sono quindi privi
della libertà di movimento. Inoltre nello stesso filmato è possibile assistere alla intervista
della testimone Testoni Laura che, seduta, niente affatto sorridente, racconta che quanto
sta accadendo è percepito come una violazione del diritto da parte del G.S.F. di svolgere
le proprie attività all’interno dei locali legittimamente condotti.
Anche in questo caso, pertanto, le circostanze alle quali il Tribunale ancora la motivazione
che oblitera evidenti emergenze processuali sono incinsistenti.
.-.-.-.-
I fatti sopra descritti integrano le ipotesi di reato di cui ai capi S),T), U).
Si è visto come è indubitabile che sia stata compiuta una vera e propria perquisizione,
tanto che ne sono stati acquisiti i frutti. Sussiste, pertanto, l’ipotesi contestata al capo S)
posto che, non ricorrendo pacificamente per la scuola Pascoli l’ipotesi di perquisizione ad
iniziativa ex art. 41 TULPS prevista e programmata solo per la scuola Pertini, la
perquisizione stessa è avvenuta con abuso di potere in mancanza dei presupposti di legge
che consentissero l’intervento. La condotta in esame ha integrato anche la violazione di
domicilio ex art. 615 c.p., in quanto la scuola era sede di private associazioni ed
organizzazioni che legittimamente ne avevano il possesso, con diritto di escludere terzi
estranei, come comprovato dalla presenza di un ufficio accrediti ove veniva verificato il
possesso di idoneo pass per chi voleva accedere all’edificio. Sussiste, infine, l’aggravante
del nesso teleologico con il reato di danneggiamento, essendo stata la perquisizione
finalizzata a danneggiare le apparecchiature per asportare ciò che era ritenuto di
interesse.
Pacifica è anche la condotta di violenza privata contestata sub T), essendo plurime e
concordanti le descrizioni delle condotte tenute dagli operatori che hanno limitato la libertà
personale dei presenti per apprezzabile lasso di tempo, costringendoli con minacce e
brandendo i manganelli a stare nei corridoi e ad assumere posizioni statiche contro il muro
o per terra sdraiati o seduti. Il fatto è aggravato dall’abuso delle pubbliche funzioni svolte
dagli autori.
Sussiste, infime, anche il danneggiamento di cui al capo U), aggravato dalla natura
pubblica dei beni danneggiati (di proprietà del Comune di Genova) alla luce delle
molteplici deposizioni e delle oggettive risultanze relative alla distruzione delle
apparecchiature informatiche e di servizio compiuta dagli operatori entrati nella Pascoli.
La responsabilità di tali reati è ascrivibile a Gava Salvatore per il suo ruolo di dirigente
dell’operazione in esame.
Innanzi tutto lo stesso Gava nel verbale di s.i.t. confermato integralmente in occasione del
primo interrogatorio, ha riferito che in occasione dei fatti del 21-22 luglio 2001 era stato al
comando di un gruppo di 25 uomini dei quali facevano parte non solo i colleghi di Nuoro
ma anche altri aggregati da varie Questure. Sempre nello stesso verbale di s.i.t. ha riferito
di essere entrato nella scuola Pascoli dal cancello posteriore e subito di essersi reso conto
che c’era un centro stampa. Restò in attesa di disposizioni da parte di Dominici, con ciò
confermando che era lui a dirigere gli operatori entrati nella Pascoli. Nell’interrogatorio
reso il 13/02/2002, confermato di essere stato il più alto in grado all’interno della Pascoli,
pur sostenendo di aver comandato solo i suoi 6 colleghi del Nucleo di Nuoro, ha riferito di
aver dato disposizione agli uomini di disporsi ai piani per prevenire eventuali lanci ed
operare in sicurezza: di fatto, come è stato illustrato, tutti i numerosi operatori entrati si
disposero sui tre piani, e non è pensabile che Gava intendesse mettere in sicurezza
l’edificio con solo 6 uomini, due per piano. È sempre Gava che chiese a Dominici
disposizioni sul da farsi, e l’ordine di abbandonare l’edificio venne dato da Ferri ancora e
solo a Gava, con l’effettivo risultato che tutti gli operatori che erano all’interno lasciarono
l’edificio, ulteriore prova che Gava dava efficacemente disposizioni a tutti i presenti.
Quando l’On. Mascia si presentò nella scuola e chiese di parlare con il responsabile per
chiedere la liberazione dell’edificio fu condotta da Gava e con questi parlò, senza essere
da Gava dirottata verso altri eventuali diversi responsabili.
Ancora, Gava ha ammesso di aver visto le persone schierate nei corridoi e limitate nei
movimenti, ma ha riferito di non aver ritenuto di intervenire, con ciò approvando la
condotta degli operatori, e non di non aver avuto il potere per impedirla.
Da quanto esposto risulta indubitabile il ruolo di comando esercitato da Gava durante tutta
la fase dell’irruzione nella scuola Pascoli, la sua concreta possibilità di constatare tutte le
condotte ivi tenute dagli operatori, non solo la immobilizzazione dei presenti lungo i
corridoi mediante ordini urlati e minacce, ma anche i danneggiamenti gravi ed estesi che
risultavano palesi a chiunque fosse presente. La responsabilità per le condotte tenute
dagli operatori deriva dalla sua posizione di comando, concretamente esercitata
impartendo ordini al personale sulla loro dislocazione, dalla omissione di qualsiasi
iniziativa volta ad interrompere o sanzionare le illegittimità commesse dai subordinati, ed
anzi, al contrario, dalla espressa approvazione ammessa in sede di interrogatorio; tutte
condotte eloquenti che costituivano istigazione e rafforzamento dei comportamenti illeciti
posti in essere dagli operatori, che si sentivano così corroborati e approvati nei loro intenti
delittuosi.
Solo relativamente alla imputazione di peculato la Corte ritiene insufficienti gli elementi di
prova per ritenere il concorso del Gava anche rispetto alle condotte di appropriazione
realizzate da alcuni operatori che si sono portati via parti interne di computers. Trattasi,
infatti, al contrario delle altre sopra viste, di condotte non manifeste, delle quali non vi è
prova che Gava abbia avuto cognizione personale, e che costituiscono uno sviluppo non
necessario e non facilmente prevedibile della perquisizione illegale e del
danneggiamento.
LE PERCOSSE IMPUTATE A FAZIO
Il Tribunale ha accertato la responsabilità di Fazio Luigi, unico operatore identificato, per le
percosse inferte a Huth Andreas. L’appello dell’imputato si incentra sulla non affidabilità
del riconoscimento operato dalla parte lesa e dalla assenza di conferme esterne, poiché i
testi menzionati dal Tribunale non sarebbero stati spettatori diretti del fatto.
L’impugnazione è infondata. Il riconoscimento fotografico non richiede l’osservanza delle
prescrizioni dettate in tema di ricognizione personale, per cui il riconoscimento del Fazio
da parte di Huth Andrea non è di per sé inattendibile per il solo fatto che le foto visionate
non appartenessero a soggetti somiglianti. Quello che rileva è la presenza di riscontri
esterni che rendono credibile e affidabile il riconoscimento fotografico. Tali riscontri sono
ravvisabili nelle deposizioni dei testi Plumecke Tino e Moser Nadine: costoro hanno avuto
modo di vedere il contatto fra l’aggressore e Huth; il primo ha riferito “arrivò un altro
poliziotto più anziano che chiamò Andreas vicino a sé e poi lo condusse giù lungo le
scale… indossava i jeans ed aveva una pettorina, non aveva il casco; era un po’ anziano,
capelli abbastanza grigi e una barba grigia folta”, la seconda ha riferito “un altro
poliziotto…andò con Andreas nel vano delle scale; vidi che aveva una mano sulla sua
testa e lo teneva giù. Il secondo poliziotto era più vecchio, aveva la barba grigia, era in
abiti civili, non so dire se portasse un casco”.
La descrizione del soggetto fatta dai due testi coincide con quella fornita da Huth (“Il
poliziotto che mi percosse e mi portò nel seminterrato non era molto alto circa un metro e
settanta, magro anche nel viso poteva avere circa cinquanta anni e aveva capelli grigi
corti; aveva la barba lunga di qualche giorno”) e costituisce così riscontro di attendibilità
del riconoscimento fotografico. Che poi Fazio sia l’autore delle percosse descritte da Huth
risulta dalle sue dichiarazioni, delle quali non vi è motivo di dubitare non ravvisandosi
intenti calunniosi, che sono anche confermate sempre dalla deposizione della Moser, che
ha visto il Fazio condurre forzatamente Huth in basso piegandogli la testa con una mano.
Le informazioni difensive secondo le quali Fazio non sarebbe mai salito al terzo piano, ove
è accaduto l’episodio, non sono attendibili, non solo per la provenienza da colleghi, ma
soprattutto perché per aver il significato invocato si dovrebbe presupporre che i due,
durante tutti i 40 minuti di durata della permanenza dentro la Pascoli, non abbiano mai
perso di vista il Fazio standogli sostanzialmente sempre alle costole, circostanza
ovviamente neppure adombrata.
IL TRATTAMENTO SANZIONATORIO
Il punto preliminare da affrontare su tale tema è quello relativo alle circostanze attenuanti
generiche ravvisate dal Tribunale per tutti i condannati nella incensuratezza e nella
situazione di stress e di stanchezza in cui maturarono i fatti.
La Corte non condivide tali motivazioni.
Quanto all’incensuratezza, se è vero che all’epoca della commissione dei fatti
generalmente costituiva uno dei parametri di valutazione per il riconoscimento delle
attenuanti generiche e che i Pubblici Ufficiali, solo per tale qualifica, non meritano
discriminazione rispetto ai cittadini comuni, tuttavia nel caso in esame ritiene la Corte che
la personalità degli imputati, la natura dei reati addebitati e la loro gravità escludono che la
determinazione del trattamento sanzionatorio possa essere operata anche solo in minima
parte con riferimento ai trascorsi giudiziari. Di fronte al quadro complessivo dei reati
accertati a carico degli imputati e all’entità del tradimento della fedeltà ai doveri assunti nei
confronti della comunità civile l’incensuratezza diviene fatto assolutamente irrilevante.
Quanto allo stress e alla stanchezza, non se ne vede la sussistenza né con riferimento alle
lesioni, né con riferimento agli altri reati connessi alla redazione degli atti. Relativamente
alle lesioni si è accertato come le stesse siano conseguenza del consapevole uso della
forza volutamente destinato a garantire il maggior numero possibile di arresti: tale scelta è
il frutto di ponderata decisione, maturata anche dopo la manifestazione di perplessità
iniziali da parte di alcuni funzionari, e quindi non può dirsi dettata da stress e stanchezza.
Le modalità di esplicazione di tale violenza, generalizzata, continua e indiscriminata,
perpetratasi anche con calcolata freddezza, escludono che si sia trattato del frutto di
stress e stanchezza.
Quanto ai falsi, alle calunnie e agli altri reati conseguenti, si è trattato della consapevole
preordinazione di un falso quadro accusatorio ai danni degli arrestati, realizzato nel lungo
arco di tempo che è intercorso fra la cessazione delle operazioni e il deposito degli atti in
Procura avvenuto la domenica alle ore 18,30: la motivazione di tale condotta criminosa,
volta a salvare l’operazione già evidentemente apparsa disastrosa, è incompatibile con
stress e stanchezza, e presuppone, viceversa una attenta e scrupolosa organizzazione
nella predisposizione degli atti e del loro contenuto. Nel quadro offerto dalla Polizia agli
inquirenti nella immediatezza tutto ha una logica e una coerenza interna (ed è questo il
motivo per cui i Pubblici Ministeri, che confidavano nella onestà della P.G., chiesero la
convalida degli arresti, non certo, come infondatamente sostenuto dal Tribunale, perché i
fatti esposti fossero veri). Tutti gli atti, le relazioni di servizio e le annotazioni convergevano
in modo sinergico apparentemente convincente a supportare le accuse verso gli arrestati,
e tale risultato non può essere stato la conseguenza di stress e stanchezza (condizioni
foriere di errori e carenze macroscopiche) quanto piuttosto di studiata e ragionata
organizzazione.
Tanto premesso, ritiene la Corte che, tranne per la posizione di Fournier, per tutti gli altri
imputati non siano ravvisabili circostanze atipiche che giustifichino attenuazione di pena.
Relativamente ai responsabili delle lesioni non può che rimarcarsi la notevole gravità dei
fatti. I tutori dell’ordine (come tali ancora apprezzati per esempio da Cestaro Arnaldo, di
anni 62 all’epoca dei fatti, che si è espresso nei seguenti termini ”si apre la porta così,
mamma mia, era la nostra Polizia, la Polizia di Stato,… hanno cominciato coi manganelli
da me uno e dopo gli altri… sono stato colpito, ma non da quello che aveva alzato le mani
così, da altri poliziotti in seguito”) si sono trasformati in violenti picchiatori, insensibili a
qualunque evidente condizione di inferiorità fisica (per sesso o età delle vittime), agli
atteggiamenti passivi e remissivi di chi stava fermo con le mani alzate, di chi stava
dormendo e si era appena svegliato per il frastuono. Alla violenza si è aggiunto l’insulto, il
dileggio sessuale, la minaccia di morte. Il sangue è sgorgato a fiotti per ogni dove
lasciando tracce (immortalate dalle fotografie scattate dai Carabinieri) che non potevano
essere trascurate da nessuno dei presenti. L’enormità di tali fatti, che hanno gettato
discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero, non rende seriamente rintracciabile
alcuna circostanza attenuante generica. Né a diversa conclusione può condurre il
comportamento processuale successivo, improntato, nella migliore delle ipotesi, alla mera
negazione di responsabilità, in quella peggiore a sostenere che le ferite erano pregresse.
Nel processo si è assistito soltanto ad un deplorevole scambio di accuse tra gli imputati
che si sono ributtati a vicenda la responsabilità delle lesioni e degli altri gravi reati, ma non
una sola voce di rammarico per l’accaduto o un pensiero alle vittime si sono levati.
Se possibile è ancora più grave la valutazione delle condotte successive che hanno
prodotto i falsi, le calunnie e gli arresti illegali (per ricordare le più rilevanti). Qui è davvero
difficile nascondersi l’odiosità del comportamento: una volta preso atto che l’esito della
perquisizione si era risolto nell’ingiustificabile massacro dei residenti nella scuola, i vertici
della Polizia avevano a disposizione solo un retta via, per quanto dolorosa: isolare ed
emarginare i violenti denunciandoli, dissociarsi da tale condotta, rimettere in libertà gli
arrestati. Purtroppo è stata scelta la strada opposta: con incomprensibile pervicacia si è
deciso di percorre fino in fondo la strada degli arresti, e l’unico modo possibile era creare
una serie di false circostanze funzionali a sostenere così gravi accuse da giustificare un
arresto di massa.
Pur facendo appello a tutta l’umana comprensione possibile, non si riesce a scorgere in
tale scelta e nella sua concreta attuazione alcun aspetto che possa integrare una generica
circostanza di attenuazione della pena.
Come si è anticipato, solo nei confronti di Fournier è possibile confermare la decisione di
primo grado alla luce della condotta tenuta dal predetto. Benché in ritardo e
ingiustificatamente passivo prima e durante lo svolgimento delle operazioni, si deve al suo
intervento l’interruzione del massacro, che poteva avere ulteriori e ben più gravi
conseguenze. Dal punto di vista processuale al dibattimento, seppur tardivamente e
sempre cercando di scagionare i propri uomini, Fournier ha ammesso la vera natura e
consistenza della condotta violenta degli operatori entrati nella scuola.
La Corte, nella valutazione complessiva dei fatti, ritiene di non obliterare la circostanza,
emersa chiaramente in causa fin dalle prime emergenze e confermata nell’ulteriore corso
processuale, secondo la quale l’origine di tutta la vicenda è individuabile nella esplicita
richiesta da parte del Capo della Polizia di riscattare l’immagine del corpo e di procedere a
tal fine ad arresti, richiesta concretamente rafforzata dall’invio da Roma a Genova di alte
personalità di sua fiducia ai vertici della Polizia che di fatto hanno scalzato i funzionari
genovesi dalla gestione dell’ordine pubblico. Certo tale pressione psicologica non giustifica
in nulla la commissione dei reati né l’eventuale malinteso spirito di corpo che ha
caratterizzato anche successivamente la scarsa collaborazione con l’ufficio di Procura
(riconosciuta anche dal Tribunale), ma consente, nell’ambito dell’ampio divario fra le
misure edittali della pena, di optare per la quantificazione della pena base nel minimo.
LE PRESCRIZIONI
Il decorso del tempo ha comportato l’estinzione per prescrizione dei seguenti reati:
- la calunnia contestata al capo B) a Luperi e Gratteri;
- la calunnia contestata al capo D) a CALDAROZZI Gilberto, MORTOLA Spartaco,
DOMINICI Nando, FERRI Filippo, CICCIMARRA Fabio, DI SARRO Carlo, MAZZONI
Massimo, DI NOVI Davide e CERCHI Renzo. A tale proposito si deve rilevare che per
mero errore materiale nel dispositivo letto all’udienza del 18/05/2010 è stata omessa
l’indicazione di tale reato fra quelli per i quali è stata pronunciata sentenza di non doversi
procedere a pagina 2 del dispositivo originale. L’evidenza dell’errore emerge dal fatto che
per il medesimo reato la declaratoria di estinzione è stata pronunciata nei confronti dei
concorrenti Luperi e Gratteri e che la condanna dei medesimi imputati al risarcimento dei
danni in favore delle parti civili è stata pronunciata anche con riferimento ai danni causati
dal reato di calunnia (pag. 5 del dispositivo originale);
- l’arresto illegale contestato al capo E) a predetti imputati;
- la calunnia contestata al capo G) a Canterini Vincenzo. Anche in tale caso valgono le
considerazioni precedenti in ordine alla omissione materiale nel dispositivo, il cui errore è
desumibile dalla indicazione della pena inflitta a tale imputato, riferita solo ai reati di falso
aggravato e lesioni gravi.
- tutte le lesioni contestate al capo H) a Fournier Michelangelo, in conseguenza delle
ritenute attenuanti generiche;
- solo le lesioni semplici contestate al capo H) a CANTERINI Vincenzo, BASILI Fabrizio,
TUCCI Ciro, LUCARONI Carlo, ZACCARIA Emiliano, CENNI Angelo, LEDOTI Fabrizio,
STRANIERI Pietro, COMPAGNONE Vincenzo. Non sono, viceversa, prescritte le lesioni
gravi aggravate dall’uso delle armi, la cui pena edittale massima ex art. 585 c.p. è di anni 9
e mesi 4, la quale, secondo il vigente più favorevole regime, comporta la durata massima
dl termine di prescrizione di anni 11 e mesi 8 (termine non ancora maturato dalla
decorrenza del 21/07/2001).
A questo proposito la Corte rileva che l’eccezione sollevata dall’Avvocatura dello Stato
secondo la quale non vi sarebbe prova certa dell’entità delle lesioni, che quindi non
potrebbero essere qualificate gravi, è tardiva in quanto mai sollevata in primo grado, ove il
contraddittorio fra le parti si è svolto pacificamente sul presupposto della correttezza della
contestazione. Osserva in ogni caso la Corte che l’entità delle lesioni è stata per tutti
certificata con documentazione sanitaria rilasciata da strutture pubbliche, sulla cui
correttezza non vi è motivo di dubitare, e che l’Avvocatura dello Stato non ha
motivatamente contestato.
- le calunnie contestate ai capi L) ed N) a Nucera e Panzieri; anche in tale caso valgono
le considerazioni precedenti in ordine alla omissione materiale nel dispositivo, il cui errore
è desumibile dalla indicazione della pena inflitta a tali imputati, riferita solo ai reati di falso
aggravato, e dalla condanna dei predtti al risarcimento dei danni in favore delle parti civili
anche con riferimento al reato di calunnia;
- la perquisizione illegale, la violenza privata ed il danneggiamento contestati ai capi S),
T) e U) a Gava Salvatore;
- le percosse contestate al capo Z1) a Fazio luigi;
- la calunnia e l’arresto illegale contestate ai capi 2) e 3) del Proc. 5045 Trib a Di
Bernardini Massimiliano.
LA DETERMINAZIONE DELLE PENE
- Per il falso ideologico in atto fidefacente aggravato dal nesso teleologico contestato al
capo A) a Luperi e Gratteri, determinata la pena base in anni tre di reclusione, l’aumento
per l’aggravante del fine teleologico è quantificato in mesi 3 e l’aumento di pena per la
continuazione interna fra i tre fatti di falso è quantificato in mesi 3 per ciascuno degli atti
falsi (comunicazione di notizia di reato, verbale di perquisizione e sequestro, verbale di
arresto), giungendosi alla quantificazione finale di anni 4 di reclusione.
- Per il falso ideologico pluriaggravato contestato ai capi C) e 1) del Proc. 5045 Trib a
CALDAROZZI Gilberto, MORTOLA Spartaco, DOMINICI Nando, FERRI Filippo,
CICCIMARRA Fabio, DI SARRO Carlo, MAZZONI Massimo, DI NOVI Davide, CERCHI
Renzo e DI BERNARDINI Massimiliano, determinata la pena base in anni tre di
reclusione, l’aumento per l’aggravante del fine teleologico è quantificato in mesi 2 e
l’aumento di pena per la continuazione interna fra i tre fatti di falso è quantificato in mesi 2
per ciascuno dei tre atti falsi, giungendosi alla quantificazione finale di anni 3 e mesi 8 di
reclusione.
- Per il falso ideologico in atto fidefacente aggravato dal nesso teleologico e le lesioni
gravi (ravvisabili in danno di Cestaro Arnaldo, Coelle Benjamin, Doherty Nicola Anne,
Duman Mesut, Haldimann Fabian, Jonasch Melanie, Kutschkau Anna Julia, Martensen
Niels, Martinez Ferrer Ana, Moret Fernandez David, Nogueras Corral Francho, Sicilia
Heras Jose Luis, Wiegers Daphne, Zuhlke Lena) contestate ai capi C) e H) a CANTERINI
Vincenzo, determinata la pena base per il più grave reato di falso ideologico in atto
fidefacente in anni tre di reclusione, l’aumento per l’aggravante del fine teleologico è
quantificato in mesi 3 e l’aumento di pena per la continuazione in giorni 45 per ciascuno
dei 14 episodi di lesioni gravi (pari ad un totale di mesi 21), giungendosi così alla pena
finale di anni 5 di reclusione.
- Per le lesioni gravi contestate al capo H) a BASILI Fabrizio, TUCCI Ciro, LUCARONI
Carlo, ZACCARIA Emiliano, CENNI Angelo, LEDOTI Fabrizio, STRANIERI Pietro,
COMPAGNONE Vincenzo, determinata la pena base ex art. 585 c.p. in anni 3, mesi 1 e
giorni 5 di reclusione, l’aumento per le altre 13 lesioni gravi in continuazione è determinato
in giorni 25 ciascuna (misura inferiore rispetto a quella stabilita per il superiore gerarchico
Canterini, maggiormente responsabile), pari all’aumento complessivo di giorni 325,
giungendosi così alla pena finale di anni 4 di reclusione.
- Per i falsi in atto fidefacente aggravato dal nesso teleologico contestati ai capi I) ed M)
a Nucera e Panzieri, determinata la pena base in anni tre di reclusione, l’aumento per
l’aggravante del fine teleologico è quantificato in mesi 2 e l’aumento di pena per la
continuazione interna fra i tre fatti di falso (la rispettiva relazione di servizio, il verbale di
perquisizione e sequestro e il verbale di arresto) è quantificato in mesi 1 ciascuno,
giungendosi così alla pena finale per ciascun imputato di anni 3 e mesi 5 di reclusione.
- Per i reati di falso in atto pubblico fidefacente contestato nel PROC. riunito N. 1079/08
DIB e di detenzione e porto di arma da guerra contestato nel capo P) a Troiani Pietro,
quantificata per il reato più grave di falso la pena base in anni 3 di reclusione, l’aumento
per la continuazione interna (contestazione di concorso nella falsificazione di due atti, il
verbale di perquisizione e sequestro e quello di arresto) è quantificato in mesi 3 di
reclusione, e l’aumento per la continuazione con la detenzione ed il porto delle armi in
mesi 6, giungendosi così alla pena finale di anni 3 e mesi 9 di reclusione.
- Per il reato di falso in atto fidefacente contestato a Gava Salvatore, considerata la
particolare gravità della condotta, inescusabile sotto alcun punto di vista posto che
l’imputato non essendo neppure entrato nella scuola Pertini non poteva neanche per
errore ritenere dovuta la sua sottoscrizione in calce al verbale di perquisizione e
sequestro, la pena è determinata in anni 3 e mesi 8 di reclusione.
Alle suddette condanne consegue la pena accessoria della interdizione temporanea dai
pubblici uffici nei confronti di GRATTERI Francesco, LUPERI Giovanni, CALDAROZZI
Gilberto, MORTOLA Spartaco, DOMINICI Nando, FERRI Filippo, CICCIMARRA Fabio, DI
SARRO Carlo, MAZZONI Massimo, DI NOVI Davide, CERCHI Renzo, DI BERNARDINI
Massimiliano, NUCERA Massimo, PANZIERI Maurizio, GAVA Salvatore, CANTERINI
Vincenzo, BASILI Fabrizio, TUCCI Ciro, LUCARONI Carlo, ZACCARIA Emiliano, CENNI
Angelo, LEDOTI Fabrizio, STRANIERI Pietro, COMPAGNONE Vincenzo e TROIANI
Pietro.
Tutti i predetti imputati devono essere condannati al pagamento delle spese processuali
del presente grado di giudizio, e GRATTERI Francesco, LUPERI Giovanni, CALDAROZZI
Gilberto, MORTOLA Spartaco, DOMINICI Nando, FERRI Filippo, CICCIMARRA Fabio, DI
SARRO Carlo, MAZZONI Massimo, DI NOVI Davide, CERCHI Renzo, DI BERNARDINI
Massimiliano, NUCERA Massimo, PANZIERI Maurizio, GAVA Salvatore al pagamento
anche delle spese di giudizio di primo grado.
Ai sensi della legge 241/2006 le pene inflitte sono dichiarate condonate nella misura di
anni 3 di reclusione
LE STATUIZIONI CIVILI
- In via preliminare deve rilevarsi che l’affermazione di responsabilità degli imputati in
primo grado prosciolti ne comporta la condanna, in solido con quelli già condannati ove
concorrenti, ed in solido con il Ministero dell’Interno quale responsabile civile, nei confronti
delle parti civili che si sono rispettivamente costituite nei loro conforti, ai risarcimenti dei
danni da liquidarsi in separati giudizi civili, ed al pagamento delle provvisionali già liquidate
dal Tribunale. Non ritiene la Corte che l’aumento del numero dei condebitori solidali possa
determinare un aumento delle provvisionali, la cui determinazione è rimessa a prudente
prognosi sommaria, in relazione alla quale la Corte non ha elementi per disporre
modifiche in aumento.
- Relativamente alla questione del diritto al risarcimento dei danni anche in conseguenza
delle condanne per il delitto di falso, osserva la Corte che il tema è stato mal posto dalle
parti civili e dal Tribunale. Non si tratta, infatti, di valutare l’esistenza di uno o più fatti lesivi
ciascuno generatore di danno, con il possibile rischio di duplicazione paventato dal
Tribunale, o di decurtazione lamentata dalle parti civili, perché nel caso in esame si verte
in una tipica ipotesi di concorso formale, in cui con una sola azione si commettono più
reati. La falsificazione dei verbali di P.G. ha contestualmente intergrato i reati di falso
ideologico in atto fidefacente e di calunnia. Il fatto illecito generatore di danno dal punto di
vita civilistico è uno solo, ed integra una sola causa petendi dell’invocato diritto al
risarcimento dei danni. Ciò non vuol dire che sia irrilevante la violazione della norma
penale che punisce il falso ideologico, il quale come ricordato dallo stesso Tribunale
integra una fattispecie plurioffensiva che vede anche il privato destinatario del falso parte
offesa. È infatti evidente che un conto è subire una calunnia da un privato cittadino con
una denuncia privata, un’altro, ben più grave per le maggiori difficoltà di difendersi, è
subire una calunnia confezionata da un pubblico ufficiale in un verbale di polizia
giudiziaria, ma la rilevanza di tale duplice violazione di norme penali si manifesta sotto il
profilo della gravità del fatto e dell’entità dell’unico danno subito dalla parte lesa. Spetterà,
quindi, al giudice civile liquidare il danno tenendo conto che il fatto lesivo, benché unico, è
costituito dalla violazione di due norme penali, e come tale è potenzialmente idoneo a
causare danno maggiore.
- L’appello proposto dal GENOA SOCIAL FORUM deve essere respinto perché tale
associazione, nata con l’oggetto sociale specifico di organizzare le manifestazioni di
dissenso al vertice G8 in questione, si è estinta per esaurimento dello scopo sociale con la
conclusione del vertice stesso, e non esiste più come centro di imputazione di rapporti
giuridici. La circostanza è stata ammessa dallo stesso Agnoletto in allora legale
rappresentante del GSF, il quale ha dichiarato nella deposizione testimoniala del 10/10/07
“Il GSF attualmente non esiste più, è andato avanti fino al 2002. Io recupero il ruolo di
portavoce quando le associazioni che ne facevano parte devono assumere orientamenti in
relazione agli eventi del G8, ma una struttura ufficiale di GSF non c’è più”.
- L’appello proposto dall’ASSOCIAZIONE GIURISTI DEMOCRATICI è fondato, non
quanto ai danni alle attrezzature che il Comune le aveva consegnato, ma per l’accertata
sussistenza dei reati di perquisizione abusiva e violazione di domicilio con riferimento ai
locali a sua disposizione. Rileva la Corte che seppure sia vero che anche il detentore
qualificato ha titolo al risarcimento dei danni inferti alle cose condotte in locazione o
comodato gratuito, occorre tuttavia pur sempre la deduzione e la dimostrazione
dell’esistenza del danno, anche sub specie di risarcimento a sua volta pagato dal
detentore a favore del proprietario. Nel caso in esame nulla ha dedotto e tanto meno
provato l’Associazione circa un effettivo danno subito dalla rottura dei computers di
proprietà del Comune, per cui sotto tale profilo l’appello è infondato.
Viceversa essendo stata accertata l’esistenza dei reati ascritti a Gava di perquisizione
abusiva e violazione di domicilio, reati compiuti anche e soprattutto nei locali affidati
all’Associazione giuristi, sussiste il diritto al risarcimento dei danni conseguenti, da
liquidarsi in separato giudizio. Nulla, invece, è dovuto per la violenza privata, posto che le
vittime non sono state individuare in base alla loro affiliazione all’associazione, ma hanno
subito le violenze al pari di tutti gli altri presenti all’interno della scuola Pascoli senza alcun
particolare movente legato alla loro appartenenza all’Associazione.
- L’appello proposto dalle parti civili Bartesaghi Enrica e Gandini Ettorina, madri di parti
lese dei reati giudicati in questo processo, è infondato.
In tema di risarcimento del danno in favore dei parenti per lesioni subite dai prossimi
congiunti la Suprema Corte civile, fin da Sez. 3, Sentenza n. 10816 del 08/06/2004, ha
sancito che “Ai prossimi congiunti di persona che abbia subito, a causa di fatto illecito
costituente reato, lesioni personali, spetta anche il risarcimento del danno morale, a
condizione che si tratti di lesioni seriamente invalidanti, giacché lesioni minime o prive
di postumi non rendono configurabile una sofferenza psicologica inquadrabile nella
nozione di danno morale.” E ancora più recentemente (Sez. 3, Sentenza n. 8546 del
03/04/2008) ha stabilito che “In tema di risarcimento del danno ai prossimi congiunti di
persona che abbia subito, a causa di fatto illecito costituente reato, lesioni personali spetta
anche il risarcimento del danno morale concretamente accertato in relazione ad una
particolare situazione affettiva della vittima, non essendo ostativo il disposto dell'art.
1223 cod. civ., in quanto anche tale danno trova causa immediata e diretta nel fatto
dannoso. In tal caso, costituendo il danno morale un patema d'animo e, quindi, una
sofferenza interna del soggetto, esso, da una parte non è accertabile con metodi scientifici
e, dall'altra, come per tutti i moti dell'animo, solo quando assume connotazioni
eclatanti può essere provato in modo diretto, non escludendosi, però, che, il più delle
volte, esso possa essere accertato in base a indizi e presunzioni che, anche da soli, se
del caso, possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità” (fattispecie di gravissime
lesioni permanenti in danno di figlio minorenne). I casi in cui la giurisprudenza ha
riconosciuto il risarcimento del c.d. danno riflesso o “di rimbalzo” riguardano ipotesi di
gravissime lesioni permanenti che per la loro notevole incidenza invalidante e per lo stretto
legame familiare che unisce la vittima ai parenti, ingenera nella vita di questi ultimi un
profondo sconvolgimento sotto tutti gli aspetti delle relazione interpersonali (necessità di
prestare cure e attenzioni alla vittima, limitazioni alla sfera delle attività praticabili,
frustrazioni delle aspettative nutrite sul futuro della vittima) tale da determinare un danno
permanente e significativo anche “di riflesso” sul parente della vittima diretta delle lesioni.
Ma nel caso in esame le vittime primarie, maggiorenni ed indipendenti, hanno subito
lesioni temporanee che non hanno lasciato conseguenze invalidanti di alcuna natura nelle
loro vite, e tanto meno possono averne determinate in quelle delle madri. Non sussiste,
pertanto, alcun danno risarcibile in capo alle appellanti.
- Il motivo di appello relativo alla liquidazione delle spese di costituzione e
rappresentanza delle parti civili è parzialmente fondato. La valutazione dell’attività
defensionale compiuta dal Tribunale è stata certamente riduttiva. Il processo, per gravità
dei fatti, numero delle parti, durata nel tempo, natura e complessità degli adempimenti è
stato certamente connotato da particolare difficoltà ed ha costituito, insieme con gli altri
grandi filoni processuali della vicenda G8 che ha funestato Genova, un evento
straordinario nell’esperienza giudiziaria del distretto negli ultimi anni. Non risponde al vero
che l’attività defensionale delle parti civili si sia allineata e appiattita sulle argomentazioni
della procura; la consonanza di posizioni che discende ex se dalla struttura del processo
non consente di ignorare i contributi anche originali e significativi che le parti civili hanno
dato all’accertamento della verità, ad esempio con la consulenza sulla collocazione
temporale dei fatti immortalati nei materiali audiovisivi, ampiamente discussa e illustrata
anche oralmente, o con gli utili contributi forniti nella ricostruzione dei passaggi più
articolati e problematici del processo, come la vicenda delle bombe molotov.
La Corte reputa che la liquidazione degli onorari per la partecipazione personale alle
udienze nella misura minima sia stata decisamente insufficiente, e stima equo procedere
ad una rivalutazione di tutte le liquidazioni di tali voci mediante l’applicazione del
coefficiente del 100%.
Non ritiene la Corte, viceversa, che il criterio seguito dal Tribunale per liquidare gli onorari
in caso di sostituzione processuale all’udienza (attuato mediante l’applicazione della
percentuale del 20% sull’importo di tariffa) sia errato. Non solo tale criterio è stato
proposto da alcune parti civili nelle rispettive note spese, ma, non sussistendo divieto di
applicazione analogica delle norme in questione, non è arbitrario equiparare la posizione
del difensore che in udienza, sostituendo più colleghi, difende più parti in posizione
processuale omologa, a quella del difensore che difende direttamente più parti sue clienti,
ipotesi per la quale l’onorario è del 20% per ciascuna parte rappresentata ex art. 3 D. M.
127/2004 (che in questo caso diviene 20% in favore di ciascun difensore sostituito).
- Infine è fondato l’appello dei difensori ammessi al patrocinio a spese dello Stato, che
lamentano come la liquidazione delle spese a carico degli imputati condannati e del
responsabile civile sia stata effettuata dal Tribunale nella stessa misura ridotta ex lege
prevista per la liquidazione a carico dello Stato. I due piani, infatti, sono distinti e non
consentono commistioni. Come ha riconosciuto Cass. Pen. Sez. 4, Sentenza n. 42844
del 2008 “la difficoltà, anche dal punto di vista pratico, di coordinare le due liquidazione,
per la necessità di un provvedimento a favore del difensore e per la assenza di ogni
previsione normativa che stabilisca che il giudice penale debba uniformarsi al criterio di
cui all'art. 82 del T.U. … può essere evitata riconoscendo l'autonomia delle due
liquidazioni, secondo un principio che è stato già affermato da questa Corte, con la
recentissima sentenza del 2 luglio 2008 n. 26663, che ha ritenuto che la disposizione
dell'art. 541 c.p.p., comma 1, è intesa a regolare il regolamento delle spese processuali tra
imputato e parte civile, e la condanna concerne il primo in favore esclusivamente del
secondo. L'onorario e le spese di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 82 afferiscono invece
al rapporto tra il difensore e la parte difesa e vanno liquidati dal magistrato competente ai
sensi del precitato testo normativo, con i criteri indicati dal cit. art. 82 e quindi con
valutazione autonoma di tale giudice rispetto a quella che afferisce al diverso rapporto tra
imputato e parte civile.” Aderendo a tale prospettazione, ritiene la Corte che nella
liquidazione degli onorari in favore delle parti civili ammesse al patrocinio a spese dello
Stato non sussistano i limiti quantitativi di cui all’art. 82 D.P.R. 115/2002, e che la tutela del
diritto dello Stato al recupero di quanto anticipato alla parte civile nella sua funzione di
garanzia tipica del sistema del patrocinio per i non abbienti, venga salvaguardato
disponendo che i condannati al rimborso delle spese di lite corrispondano direttamente
allo Stato la quota parte di quanto liquidato da questo giudice corrispondente alla
liquidazione disposta nella competente sede ex D.P.R.115/2002, e che per la differenza
provvedano al pagamento direttamente in favore delle parti civili.
- Le spese di rappresentanza e costituzione di questo grado sono liquidate in dispositivo,
e ne è disposto il pagamento diretto in favore dei difensori antistatari che hanno reso le
dichiarazioni di legge.
P.Q.M.
Visto l’art. 591 c.p.p.
dichiara inammissibile l’appello incidentale proposto dalla parte civile FASSA Liliana, e
compensa integralmente le spese di lite fra la stessa e gli imputati e il responsabile civile;
Visti gli artt. 531, 592 e 605 c.p.p.
in parziale riforma della appellata sentenza:
DICHIARA
non doversi procedere nei confronti di GRATTERI Francesco, LUPERI Giovanni in ordine
al reato loro ascritto al capo B) per essere estinto per prescrizione;
DICHIARA
non doversi procedere nei confronti di GRATTERI Francesco, LUPERI Giovanni,
CALDAROZZI Gilberto, MORTOLA Spartaco, DOMINICI Nando, FERRI Filippo,
CICCIMARRA Fabio, DI SARRO Carlo, MAZZONI Massimo, DI NOVI Davide, CERCHI
Renzo per il fatto loro contestato al capo E), e nei confronti di DI BERNARDINI
Massimiliano per il fatto contestato al capo 3), qualificati alla stregua dell’art. 606 c.p., in
quanto estinti per prescrizione;
DICHIARA
non doversi procedere nei confronti di FOURNIER Michelangelo in ordine ai reati ascrittigli
al capo H) perché estinti per prescrizione;
DICHIARA
non doversi procedere nei confronti di CANTERINI Vincenzo, BASILI Fabrizio, TUCCI
Ciro, LUCARONI Carlo, ZACCARIA Emiliano, CENNI Angelo, LEDOTI Fabrizio,
STRANIERI Pietro, COMPAGNONE Vincenzo in ordine ai reati di lesioni personali
semplici loro ascritti al capo H) perché estinti per prescrizione;
DICHIARA
non doversi procedere nei confronti di GAVA Salvatore in ordine ai reati ascrittigli ai capi
S), T) ed U) in quanto estinti per prescrizione;
DICHIARA
non doversi procedere nei confronti di FAZIO Luigi in ordine al reato ascrittogli al capo Z1)
in quanto estinto per prescrizione;
Visto l’art. 530 cpv c.p.p.
ASSOLVE
BURGIO Michele dal reato ascrittogli al capo Q) per non aver commesso il fatto e dal
reato ascrittogli al capo R) perché il fatto non sussiste;
ASSOLVE
TROIANI Pietro dal reato ascrittogli al capo O) per non aver commesso il fatto,
ASSOLVE
GAVA Salvatore dal reato ascrittogli al capo V) per non aver commesso il fatto.
.-.-.-.-.-.
Ridetermina le pene, escluse le attenuanti generiche, nei confronti di:
CANTERINI Vincenzo per il reato di falso in continuazione con le lesioni gravi di cui al
capo H), nella misura di anni cinque di reclusione;
BASILI Fabrizio, TUCCI Ciro, LUCARONI Carlo, ZACCARIA Emiliano, CENNI Angelo,
LEDOTI Fabrizio, STRANIERI Pietro, COMPAGNONE Vincenzo, per i reati di lesioni gravi
di cui al capo H) nella misura di anni quattro di reclusione ciascuno;
TROIANI Pietro per i reati di falso e quelli di cui al capo P) uniti dal vincolo della
continuazione in anni tre e mesi nove di reclusione;
DICHIARA
GRATTERI Francesco e LUPERI Giovanni colpevoli del reato loro ascritto al capo A), e
condanna ciascuno alla pena di anni quattro di reclusione;
DICHIARA
CALDAROZZI Gilberto, MORTOLA Spartaco, DOMINICI Nando, FERRI Filippo,
CICCIMARRA Fabio, DI SARRO Carlo, MAZZONI Massimo, DI NOVI Davide, CERCHI
Renzo colpevoli del reato loro ascritto al capo C), e DI BERNARDINI Massimiliano
colpevole del reato ascrittogli al capo 1), e condanna ciascuno alla pena di anni tre e mesi
otto di reclusione;
DICHIARA
NUCERA Massimo colpevole del reato ascrittogli al capo I), e PANZIERI Maurizio
colpevole del reato ascrittogli al capo M), e condanna ciascuno alla pena di anni tre e mesi
otto di reclusione;
DICHIARA
GAVA Salvatore colpevole del reato di falso contestatogli, e lo condanna alla pena di anni
tre e mesi otto di reclusione.
.-.-.-.-.
Visto l’art. 29 c.p.
DICHIARA
GRATTERI Francesco, LUPERI Giovanni, CALDAROZZI Gilberto, MORTOLA Spartaco,
DOMINICI Nando, FERRI Filippo, CICCIMARRA Fabio, DI SARRO Carlo, MAZZONI
Massimo, DI NOVI Davide, CERCHI Renzo, DI BERNARDINI Massimiliano, NUCERA
Massimo, PANZIERI Maurizio, GAVA Salvatore, CANTERINI Vincenzo, BASILI Fabrizio,
TUCCI Ciro, LUCARONI Carlo, ZACCARIA Emiliano, CENNI Angelo, LEDOTI Fabrizio,
STRANIERI Pietro, COMPAGNONE Vincenzo e TROIANI Pietro interdetti per anni cinque
dai pubblici uffici.
Condanna tutti i predetti imputati al pagamento delle spese processuali del presente grado
di giudizio, e GRATTERI Francesco, LUPERI Giovanni, CALDAROZZI Gilberto,
MORTOLA Spartaco, DOMINICI Nando, FERRI Filippo, CICCIMARRA Fabio, DI SARRO
Carlo, MAZZONI Massimo, DI NOVI Davide, CERCHI Renzo, DI BERNARDINI
Massimiliano, NUCERA Massimo, PANZIERI Maurizio, GAVA Salvatore al pagamento
anche delle spese di giudizio di primo grado.
Vista la legge 241/2006 dichiara condonate nella misura di anni 3 di reclusione le pene
inflitte.
Visti gli artt. 538 e segg. c.p.p.
CONDANNA
GRATTERI Francesco, LUPERI Giovanni CALDAROZZI Gilberto, MORTOLA Spartaco,
DOMINICI Nando, FERRI Filippo, CICCIMARRA Fabio, DI SARRO Carlo, MAZZONI
Massimo, DI NOVI Davide, CERCHI Renzo, DI BERNARDINI Massimiliano, NUCERA
Massimo, PANZIERI Maurizio, GAVA Salvatore, CANTERINI Vincenzo e TROIANI Pietro
in solido con il responsabile civile Ministero dell’Interno, a risarcire i danni conseguenti ai
reati di falso, di calunnia, arresto illegale, e GAVA Salvatore anche per i reati di cui ai capi
S), T) ed U) in favore delle parti civili che si sono costituite in relazione alle predette
imputazioni, ponendo le provvisionali determinate dal primo giudice a carico solidale di tutti
i predetti.
Condanna altresì GAVA Salvatore in solido con il responsabile civile Ministero dell’Interno
a risarcire in danni causati all’ASSOCIAZIONE GIURISTI DEMOCRATICI di Genova, da
liquidarsi in separato giudizio;
conferma le statuizioni civili della impugnata sentenza relative ai capi H) e Z1.
.-.-.
Ridetermina le spese di lite liquidate in primo grado a favore di:
MORET, SAMPERIZ, KUTSCHKAU, GALLOWAY, NATHRATH, HUBNER, CESTARO,
COVELL, GOL, BACZAK, DUMAN, ALBRECHT, BARO, DREYER, HERRMANN Jens
HERRMANN Jochen, RESCHKE, LUTHI, BODMER, GALANTE, WAGENSCHEIN,
BACHMANN, GATERMANN, KRESS, VILLAMOR, ZEHATSCHEK, ZUHLKE, BERTOLA,
BARRINGHAUS, PAVARINI, GALEAZZI, ALLUEVA, BRUSCHI, DIGENTI, MARTINEZ,
MASSÒ, BROERMANN, ENGEL, HAGER, HEIGL, SZABO, WIEGERS, ZAPATERO,
ZEUNER, SCRIBANI, CORDANO, COSTANTINI, NANNI, BARTESAGHI GALLO Sara,
BUCHANAN, DOHERTY, MC QUILLAN, BRUSETTI, PROVENZANO, BRIA, PATZKE,
FLETZER, PODOBNICH, LUPPICHINI, MESSUTI, VALENTI, MARCUELLO, JAEGER,
mediante l’aumento nella misura del 100% degli onorari per la partecipazione alle udienze;
pone le spese di costituzione e difesa di primo grado liquidate a favore delle parti civili a
carico di GRATTERI Francesco, LUPERI Giovanni CALDAROZZI Gilberto, MORTOLA
Spartaco, DOMINICI Nando, FERRI Filippo, CICCIMARRA Fabio, DI SARRO Carlo,
MAZZONI Massimo, DI NOVI Davide, CERCHI Renzo, DI BERNARDINI Massimiliano,
NUCERA Massimo, PANZIERI Maurizio, GAVA Salvatore, CANTERINI Vincenzo e
TROIANI Pietro in solido fra loro e con il Ministero dell’Interno.
Liquida le spese di primo grado a favore della ASSOCIAZIONE GIURISTI DEMOCRATICI
di Genova in € 13.000,00, oltre spese forfettarie IVA e CPA, condannando al pagamento in
solido GAVA Salvatore ed il Ministero dell’Interno.
Condanna gli imputati GRATTERI Francesco, LUPERI Giovanni CALDAROZZI Gilberto,
MORTOLA Spartaco, DOMINICI Nando, FERRI Filippo, CICCIMARRA Fabio, DI SARRO
Carlo, MAZZONI Massimo, DI NOVI Davide, CERCHI Renzo, DI BERNARDINI
Massimiliano, NUCERA Massimo, PANZIERI Maurizio, GAVA Salvatore, CANTERINI
Vincenzo e TROIANI Pietro in solido fra loro e con il Ministero dell’Interno a rifondere alle
parti civili le spese di costituzione e rappresentanza di questo grado che liquida:
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. AGUSTONI Piero in € 5.000,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. BIGLIAZZI Stefano in € 8.000,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. BONAMASSA Giorgio in € 4.000,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. CAFIERO Marco in € 5.000,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. CANESTRINI Nicola in € 7.000,00
complessivamente;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. CANESTRINI Sandro in € 5.000,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. CARUSO Raffaele in € 5.000,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. CAVALLO Mino in € 4.000,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. COSTA Francesca in € 6.000,00
complessivamente;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. CRISCI Simonetta in € 1.000,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. D’ADDABBO Maria in € 5.000,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. D’AGOSTINO Aurora in € 3.000,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. DALLORTO Ermanno in € 6.000,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. D’AMICO Felicia in € 2.695,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. DI RELLA Aurelio in € 3.400,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. FIORINI Elena in € 5.000,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. GALASSO Alfredo in € 2.695,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. GAMBERINI Alessandro in € 7.000,00
complessivamente;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. GIANELLI Fausto in € 6.000,00
complessivamente;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. GIANNANTONIO Domenico in € 5.000,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. GUIGLIA Filippo in € 9.000,00
complessivamente;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. LERICI Antonio in € 5.000,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. MALOSSI Carlo in € 10.000,00
complessivamente;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. MALTAGLIATI Patrizia in € 7.000,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. MAZZALI Mirko in € 3.200,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. MENZIONE Ezio in € 5.000,00
complessivamente;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. MOSER Luca in € 7.000,00 complessivamente;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. MULTEDO Raffaella in € 6.000,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. NADALINI Giuseppe in € 2.400,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. NESTA Liana in € 5.000,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. NOVARO Claudio in € 9.000,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. PAGANI Gilberto in € 9.000,00
complessivamente;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. PASSEGGI Riccardo in € 8.000,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. PASTORE Massimo in € 6.000,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. ROBOTTI Emilio in € 5.000,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. ROMEO Francesco in € 6.000,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. ROSSI Dario in € 6.000,00 complessivamente;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. SABATTINI Simone in € 10.000,00
complessivamente;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. SACCO Gianluca in € 4.900,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. SANDRA Andrea in € 7.000,00
complessivamente;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. SODANI Palo Angelo in € 4.000,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. TADDEI Fabio in € 10.000,00
complessivamente;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. TAMBUSCIO Emanuele in € 12.000,00
complessivamente;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. TARTARINI Laura in € 16.000,00
complessivamente;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. TRUCCO Lorenzo in € 6.000,00
complessivamente;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. VASSALLO Alessia in € 6.000,00;
in favore delle parti rappresentate dall’Avv. VERNAZZA Andrea in € 5.000,00
complessivamente;
Dispone per le parti civili ammesse al patrocinio a spese dello Stato il pagamento diretto in
favore dello Stato per la quota corrispondente alla liquidazione effettuata ai sensi del
D.P.R. 115/2002, e per la differenza a favore delle parti stesse;
dispone il pagamento delle spese in favore degli avvocati antistatari che hanno reso la
dichiarazione di legge.
Conferma nel resto l’impugnata sentenza.
Fissa il termine di giorni 90 per il deposito della motivazione.
Genova, 18/05/2010
Il Consigliere est.

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