Quella lenta riscoperta delle proprie origini ricordando i caduti austroungarici contro la damnatio memoriae del nazionalismo italiano

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Timidamente, negli anni, son sorti dei cippi, delle targhe, dei monumenti, defilati o meno, con i quali ricordare ciò che dall'avvento del Regno d'Italia in poi in buona parte del Friuli è stato sostanzialmente cancellato dalla memoria pubblica, ma non ovviamente da quella privata. Un territorio legato all'impero asburgico, che ricorda i propri caduti italiani che hanno lottato per la propria terra asburgica. Nei ricordi  memorie delle famiglie che si son tramandate nel tempo è difficile raccogliere testimonianze negative di quel periodo, sostanzialmente si viveva tutti assieme, ognuno con le proprie peculiarità e l'irredentismo italiano era solo una minoranza di un manipolo di esagitati. Poi, come ben sappiamo, con la guerra, le cose son cambiate in modo terrificante, per arrivare alla dannazione della memoria che ha voluto cancellare secoli e secoli di appartenenza asburgica. Lentamente, questi cippi, targhe, dal cimitero di Ronchi, al comune di Villesse, a Lucinico,

Schiavisti e schiavi

Secondo l’Istat, su un totale di 24 milioni di occupati, le posizioni non regolari sono quasi 3 milioni. Nel 2005 i lavoratori irregolari sono risultati pari a 2,951 milioni. In aumento rispetto al 2004 (2,863 milioni) ed al 2003 (2,811 milioni), ma in flessione rispetto al picco del 2001 (3,28 milioni). In diminuzione quindi anche il tasso di irregolarità che è sceso dal 13,8 per cento del 2001 al 12,1 per cento del 2005. Dato quest’ultimo comunque in crescita rispetto all’11,6 per cento del 2003 ed all’11,7 per cento del 2004. Nel lavoro irregolare l’Istat fa rientrare le posizioni continuative, quelle occasionali svolte da studenti, casalinghe, o da pensionati e da stranieri non residenti, o non in regola con il permesso di soggiorno, oltre a quelle definite “plurime”. Situazione che si verifica quando al lavoro principale se ne associa un altro non dichiarato agli enti previdenziali ed al fisco. Dall’indagine Istat emerge che dal 2001 al 2005 la forbice tra lavoro regolare ed irregolare si restringe. La ragione è da attribuire alle misure di regolarizzazione degli occupati stranieri nel 2002. I cui effetti si sono protratti anche nel 2003. Anno nel quale è ripresa la crescita del lavoro nero.



Un po’ più alte risultano le valutazioni Svimez (le stime Svimez comprendono gli irregolari in senso stretto, il secondo lavoro, gli stranieri non regolari, gli occupati non dichiarati ed il lavoro occasionale in agricoltura). In effetti per la Svimez, nel 2005 in Italia, il 13,4 per cento (pari a 3,26 milioni di unità) del totale dell’ occupazione sarebbe costituito da lavoro irregolare. L’analisi territoriale del tasso di irregolarità conferma la divisione del mercato del lavoro italiano. Nel Mezzogiorno risulta infatti irregolare quasi un lavoratore su quattro (23 per cento), mentre nel Centro-Nord la quota è pari a meno della metà (10 per cento). Queste percentuali equivalgono, in valore assoluto, a 1,54 milioni di unità di lavoro irregolari nel Mezzogiorno ed a 1,76 milioni nel Centro-Nord.



Nel 2005, rispetto al 2004, nel Mezzogiorno si è registrata una leggerissima riduzione nel numero dei lavoratori irregolari (-4 mila) inferiore alla contemporanea diminuzione delle unità di lavoro regolare, con l’effetto di un ulteriore incremento del tasso di irregolarità. In sostanza, la riduzione dell’occupazione e l’incremento della quota di lavoro nero rappresentano le due facce della crisi del mercato del lavoro meridionale. Se invece si valutano i dati di medio periodo, emerge uno sconfortante fallimento dei propositi di contrastare il lavoro sommerso.



In effetti, nel periodo 1995-2005, le unità di lavoro irregolari nel Mezzogiorno hanno fatto registrare un incremento del 17,8 per cento (pari a 232 mila unità). Valore che risulta quasi doppio rispetto a quello delle unità regolari in termini assoluti e sei volte più elevato in termini percentuali. Nel Centro-Nord, invece, nello stesso periodo gli irregolari si sono ridotti di 194 mila unità (-9,9 per cento) e le unità regolari sono cresciute di 1,6 milioni di unità (11,4 per cento).



Dunque, in un contesto di crescita complessiva dell’occupazione meridionale di 364 mila unità, due terzi di tale crescita si è concentrata nella componente irregolare, la cui incidenza è cresciuta di due punti percentuali (dal 20,7 per cento del 1995 al 23 per cento del 2005). Nel stesso periodo, nel Centro-Nord il tasso di irregolarità è sceso dal 12,1 al 10 per cento. Si può quindi dire che il lavoro nero è in larga misura una questione meridionale. Diversi fattori potrebbero esserne all’origine. Tra gli altri, la crisi di buona parte del settore industriale meridionale che incoraggia la completa immersione di piccole aziende che lavorano sulla frontiera tra regolarità ed irregolarità. Non di rado in committenza con aziende emerse. Inoltre, vi è la crescita del peso di comparti come quello delle costruzioni o il permanente rilievo dei lavori stagionali agricoli, tradizionalmente caratterizzati da tassi di irregolarità molto alti. Infine, una persistente, deplorevole legittimazione sociale del sommerso, legata, da un lato, ad una crescente paura di impoverimento che giustificherebbe una integrazione dei redditi, percepiti come insufficienti, senza porsi tanti problemi circa la regolarità dei modi. Dall’altro essa è il riflesso anche di un più generale indebolimento della lotta per la legalità e della crescente indifferenza per il rispetto delle regole.



Intendiamoci. Il lavoro nero non è solo rifiuto delle regole. E’ anche e sopratutto mancanza di rispetto per i diritti umani e la dignità dei lavoratori. Infatti, nella maggior parte dei casi immigrati irregolari sono trattati alla stregua di schiavi senza diritti e senza alcun riconoscimento della dignità di persone. Sono gli schiavi del nostro tempo. Devono spezzarsi la schiena lavorando dieci/dodici ora al giorno per due – tre euro l’ora nei lavori stagionali in agricoltura (raccolta di pomodori, patate, ecc.). Cercare un rifugio per dormire in capannoni o case diroccate. Coricarsi, stremati dalla fatica, su materassi fatti spesso di qualche foglio di cartone. Una vergogna che tanti fanno finta di non vedere. Anche se in proporzione il lavoro nero, e le forme disumane di sfruttamento sono più diffuse al Sud, non si tratta certo un fenomeno che finisce al Garigliano.
Altrettanto dura infatti è la condizione dei manovali in nero impiegati nel settore delle costruzioni al Centro-Nord. Paolo Berizzi l’ha descritta in una inchiesta per Repubblica dopo averla personalmente sperimentata, facendosi passare da clandestino per un certo periodo. “Da buon manovale bado solo a guadagnarmi, in nero, i miei 3 o 4 euro all’ora. Per dieci ore fanno 30-40 euro. Pagamento dopo cinquanta giorni. La prima settimana di prova spesso è gratis. Inizi in cantiere alle sette del mattino, finisci sfatto alle cinque, sei del pomeriggio. Niente documenti. Sicurezza zero. Alla fine del mese devi pure pagare la mazzetta al caporale che ti ha dato lavoro. Per mantenere il posto”. A Milano il mercato degli uomini“ inizia quando il sole sta ancora sotto la linea dell’orizzonte. Alle 5 del mattino schiavi e padroni sono tutti in piazzale Lotto. Chi cerca lavoro nero e chi lo offre. I primi sciamano sul prato, o aspettano seduti sulle panchine, oppure sotto le pensiline degli autobus. I volti stropicciati dal sonno, zainetti e sporte di plastica con dentro il rancio. Gli scarponi induriti dalla calce, i camicioni larghi, gli invisibili dell’edilizia attendono l’arrivo dei caporali”. Piazzale Lotto è uno dei luoghi dove tutte le mattine all’alba si svolge la contrattazione per una giornata di lavoro in cantiere. Ma ci sono altre filiali: in piazzale Corvetto, in piazzale Maciacchini, in piazzale Loreto, alle fermate della metropolitana di Bisceglie, di Famagosta, di Inganni, della stazione Centrale. Per essere lì alle 5 gli uomini scendono dal letto anche due ore prima. Sono giovani immigrati che la fame spinge ad elemosinare un lavoro massacrante. In quei punti di concentrazione, praticamente conosciuti da tutti gli immigrati clandestini, come altri ne esistono in tutte le grandi città d’Italia, si consumano (nell’indifferenza generale) una quantità incredibile di reati contro la persona, perpetrati nei confronti di individui, essere umani, ai quali la nostra “civiltà” non sente il bisogno di riconoscere il “diritto delle persone”.



Il contratto nazionale di categoria degli edili prevede 173 ore al mese; 8 ore al giorno per 5 giorni settimanali. Agli uomini che ingaggiano, i caporali ne fanno fare 250. Sabato compreso. In compenso, non sono tutelati da niente e da nessuno. In Italia il settore edile dà lavoro ad 1 milione 200 mila operai. 600 mila sono regolari o mezzi regolari (in “grigio”: su 250 ore mensili solo 80 – 100 vengono messe in busta paga), gli altri 600 mila sono in nero. Un lavoratore “regolare” per l’impresa ha un costo di 22 euro all’ora. Quando vengono impiegati lavoratori irregolari un po’ più della metà rimane all’impresa appaltatrice e subappaltante, il resto (detratti i 3 – 4 euro che percepisce il lavoratore irregolare) va al caporale. Fino a qualche anno fa il caporalato edile era appannaggio esclusivo degli italiani. Oggi è diverso. Egiziani, albanesi, rumeni, stanno riproducendo tale e quale il meccanismo dello sfruttamento. Da schiavi si sono trasformati in schiavisti.

Nel 2006 nei cantieri italiani sono morti 258 operai (dati Inail). Il 35 per cento in più rispetto al 2005. Gli infortuni sono stati 98 mila. Ma anche in questo campo il sommerso è enorme. I manovali clandestini, i “fantasmi” si fanno quasi sempre male in silenzio. Spesso persino quando perdono la vita. In larga misura l’edilizia oggi è diventata terra di predoni e di oppressi ridotti in cattività. A volte nascosti persino dopo morti. Come scrive Camilleri ne “La vampa d’agosto”: “…è caduto dall’impalcatura del terzo piano… Alla fine del lavoro non si è visto, perciò hanno pensato che se ne era già andato via. Ce ne siamo accorti il lunedì, quando il cantiere ha ripreso il lavoro… Forse, pinsò Montalbano, abbisognerebbe fari un gran monumento, come il Vittoriano a Roma dedicato al Milite Ignoto, in memoria dei lavoratori clandestini ignorati morti sul lavoro per un pezzo di pane”.
articolo di Pierre Carniti tratto da eguaglianzaelibertà

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